Lorenzo Gasparrini è scrittore, filosofo e attivista femminista. Sarà ospite della prima edizione del Festival Femminista organizzato dall’associazione Ipazia sabato 18 febbraio al Teatro Fabbretti (via delle Gardenie 3, ore 21) insieme a Irene Facheris (scrittrice, podcaster e attivista) per l’incontro “Verso una città del consenso e una città femminista”.
A proposito della città femminista: ho letto il libro di Leslie Kern, “La città femminista”, il cemento di per sé non è patriarcale, ma la sua struttura sì.
«È quello, sì: l’uso e la progettazione sono pensate sempre e costantemente per un solo tipo di utente di quegli spazi».
Succede anche quando a progettare sono le donne?
«Certo: si tratta di una disciplina urbanistica costantemente pensata solo per un certo corpo con certe misure e abitudini, ma non è l’unico a fruirne».
Per fare un esempio: sono andata in un pub ieri e non arrivavo allo specchio.
«Ecco, è uno dei tanti piccoli esempi. Il discorso più difficile che fa Kern è quello di uscire dall’idea della sicurezza. Costruire una città femminista non significa che dobbiamo costruire città più sicure, ma città più adatte al modo di vedere la vita e il mondo delle persone che non ricalcano il modello che è stato usato fino ad ora, e che hanno difficoltà a muoversi in una città che evidentemente non è stata pensata per loro».
Nascendo e vivendo da sempre in città magari non ci facciamo neanche caso. Come si fa a far notare questa cosa a chi non se ne accorge?
«Con semplici esempi: facendo vedere come tutta una serie di oggetti e spazi che normalmente abitiamo, non per volontà precisa di qualcuno o di chi li ha progettati, siano evidentemente più comodi e facili da usare per un corpo e molto meno per un altro. La cosa che mi viene in mente è la cintura di sicurezza: nessuno vuole farne a meno, ma solo a un uomo può venire in mente di farsi passare una cosa qui davanti, dove chi non è uomo ha il seno. Questo esempio poi ritorna anche nei crash test, che sono fatti con manichini che hanno sempre e solo l’aspetto del corpo maschile: questo significa che le auto sono sicure per qualcuno, e per altre persone meno. Nessuno si è fatto venire in mente che corpi diversi abbiano esigenze diverse. Un altro esempio è la forbice per i mancini: esistono anche le altre ma costano dieci volte di più, e non è che essere mancini sia una colpa da scontare».
Basta andare in giro, le donne si accorgono che non arriviamo alla mensola del supermercato, non arriviamo allo specchio…ma per farlo capire a un uomo?
«È una domanda che mi viene rivolta spesso: non gli si deve far capire niente, perché se vuole l’uomo ha tutti i mezzi a sua disposizione per capire la situazione. Il problema non è come farglielo capire, ma se lo vuole capire: è una rogna più grande. Volerlo capire vuol dire essere pronto a mettere in questione anche un dato apparentemente oggettivo come la costruzione degli oggetti, la distribuzione degli spazi. Questo vuol dire mettere in discussione te stesso, ammettere una delle cose più difficili da ammettere socialmente: il privilegio maschile. Appena capisci che ci sono persone che ingiustamente si sentono più a disagio in certi spazi, o che alcuni oggetti non sono pensati per essere comodi per chiunque, stai dicendo che sei privilegiato perché per te va benissimo. È un’ammissione che a molti uomini costa ancora tantissimo».
Immagino sia per via del rischio di dover rinunciare a quel privilegio.
«Non è un rischio, è una cosa che dovrebbero fare tutti perché, quel privilegio, altri lo pagano per te».
Quando parlate di “non è un paese per donne” immagino non vi fermiate solo alla geografia o alla progettazione degli spazi.
«Certo che no: c’è anche tutta una serie di questioni sociali che arrivano solo a un genere e non all’altro, con diverse sfaccettature dovute alla classe sociale, o alla provenienza geografica. Sono tutte questioni che si combinano per creare una gerarchia sociale che avvantaggia qualcuno a scapito di altri. Non si può fare a meno dell’intersezionalità altrimenti generalizziamo, e perdiamo alcune questioni sociali per strada».
Sto per farti una domanda che ti avranno fatto migliaia di volte: penso di aver trovato pochissimi autori femministi maschi in Italia, perché qui da noi la parola femminista ha uno stigma addosso: c’è chi è convinto che significhi il maschilismo al contrario anche se non è vero. Come sei arrivato ad essere uno scrittore femminista, e come si fa a far capire che un uomo può dirsi femminista?
«Alla seconda domanda in realtà ho già risposto prima: il problema non è capirlo, è volerlo. Sono arrivato ad essere femminista in quella che purtroppo è l’unica strada possibile nel nostro paese: per caso. Nel mio percorso di studi ho incontrato testi interessanti, ma anche l’opposizione a questi testi, e non la capivo. Ho sentito che c’era un problema politico dietro, qualcuno che non vuole che certi discorsi entrino nel contesto accademico. Indagare questo fatto mi ha portato a un’altra serie di scoperte, e alla volontà di proseguire quel tipo di studio. Il femminismo si chiama così, perché devo usare un altro nome? Capisco che ci sia una parte della società italiana che a questa parola ha dato una connotazione molto precisa, e che sia molto difficile uscirne. C’è differenza con l’estero: fuori dall’Italia la parola femminismo è meno detonante, anche perché la storia del femminismo italiano è stata molto escludente, per motivi politici anche giusti. Le cose vanno avanti, la storia per fortuna cambia, e mi sentirei più nel torto ad usare un altro termine».
Nemmeno la lingua è per donne, in effetti.
«È difficile ricordare ai parlanti che la lingua non è solo uno strumento con cui nomini gli oggetti e chiami le persone, ma è anche un deposito di conoscenza: purtroppo la nostra lingua racconta una storia sociale, e bisogna assumersene la responsabilità. Decidere di usare una parola diversa o adottarne una in un contesto specifico significa rendere giustizia a un cambiamento sociale che è già avvenuto: i cambiamenti avvengono prima, la lingua li ratifica in seguito, rendendoli visibili. Se non succede significa che c’è una resistenza verso questo cambiamento sociale, e dobbiamo chiederci perché: perché c’è una repulsione verso i nomi di professione femminili? Perché non ci piace immaginare che non tutte le persone si riconoscano nei due generi della nostra lingua abbiano diritto ad avere un loro strumento?».
Anche perché questa resistenza arriva da luoghi come l’Accademia della Crusca, o Parlamento e Senato.
«Non è un caso che siano autorità, infatti. Si percepisce che dietro queste modifiche apparentemente solo linguistiche ci sia un modo diverso di vedere la società, un modo che a qualcuno non fa affatto comodo».
Posso capire il Parlamento, visto chi c’è al Governo, ma per la Crusca qual è il problema?
«C’è uno scontro di poteri: se si immagina che quell’istituzione serva a conservare una lingua non abbiamo capito a che serve. Le uniche lingue conservate sono quelle morte, finché i parlanti le usano le lingue sono costantemente modificate: un’istituzione come quella dovrebbe registrare e dare conto di queste modifiche, spiegando perché accadono. Opporsi al cambiamento è, in un certo senso, fuori dal loro ambito. Poi vorrei sapere come mai si oppongono a questo e non alla morte del congiuntivo: mi sa che il problema è un altro».