La prima edizione del Festival Femminista organizzato dall’associazione Ipazia ospita venerdì 10 febbraio, al circolo Cherubini di Grignano (via Bambini 16), “Serie Tv, personaggi e rappresentazioni” con Marina Cuollo (scrittrice, attivista e content creator) e Marina Pierri (Fondatrice di Fest e critica tv). E proprio con Marina Pierri, fondatrice del Festival delle Serie tv di Milano e autrice del libro “Eroine”, in cui esplora gli archetipi narrativi femminili, abbiamo cercato di capire perché le serie tv che guardiamo tutti i giorni ruotano quasi sempre intorno alle medesime rappresentazioni.
Crescendo volevo essere un maschio, perchè nei cartoni animati di quando ero piccola solo i personaggi maschili facevano cose che mi piacevano davvero: credi che la situazione sia migliorata adesso?
«Sicuramente sì, anche se dobbiamo pensare a chi facciamo riferimento: se pensiamo agli Stati Uniti è un conto, un altro è parlare dell’Italia. La situazione è diversa perché i mercati sono diversi e non possiamo prescindere dal discorso economico. Anche la rappresentazione non può prescindere dal denaro. Affinché ci sia una buona rappresentazione nelle storie è necessario che chi si occupa di storie prenda decisioni non solo etiche, ma di una specifica qualità, e che ci sia una mentalità che permetta una rappresentazione più completa: una rappresentazione, cioè, della quale tutte le persone possano beneficiare».
Noi importiamo moltissimi prodotti audiovisivi dagli Stati Uniti, e c’è una grandissima differenza fra quei prodotti e ciò che viene creato in Italia.
«C’è una differenza enorme, ma è perché il mercato è diverso: negli Stati Uniti il mercato è molto florido. Sicuramente il divario è gigantesco, da un punto di vista economico, soprattutto per quanto riguarda cinema e televisione.
E a livello di storie? Ho sempre l’impressione che sulla Rai ci siano serie in cui le donne o sono suore o madri e basta.
«Non è assolutamente vero: in Italia c’è una grande produzione che esula da questi temi, anche dentro la Rai. Ci sono “L’amica geniale” o “Mare fuori”, prodotti lontanissimi dalla targetizzazione di serie come “Don Matteo” o “Che Dio ci aiuti”. Rai detiene quasi l’80% del mercato seriale italiano, ma purtroppo è vittima di uno snobismo che dal mio punto di vista non è molto ben indirizzato».
Ho letto il tuo libro “Eroine”, dove scrivi che il percorso dell’eroe maschile e quello femminile è completamente diverso.
«Sì, il 17 febbraio uscirà anche il mio podcast con cui continuerò a lavorare sul viaggio dell’eroina. La differenza fra l’eroe e l’eroina è il privilegio del movimento, detto in modo molto sintetico. Da sempre consideriamo che muoversi, viaggiare, conquistare, perseguire i propri obiettivi sia retaggio maschile, o retaggio dell’eroe, mentre le donne ricevono un’educazione opposta da un punto di vista sistemico e socioculturale. Riceviamo la cultura della stanzialità e immobilità, stare ferme perché il mondo è pericoloso, brutto e cattivo. Questo si traduce in una specie di blocco dell’esplorazione dello spazio, l’educazione all’esplorazione viene meno nell’educazione patriarcale, quindi in qualche modo l’eroina, che non ha il privilegio del movimento, si prende questo privilegio e si muove alla ricerca della sua autodeterminazione. L’uomo, inteso nel senso sistemico, ha già il privilegio del movimento. Ogni volta che parliamo di viaggio dell’eroina parliamo di una donna che sfida le convenzioni sociali per intraprendere un’esplorazione dello spazio, materiale o immateriale e diventare proprietaria della sua storia».
Soprattutto su Netflix c’è stato un proliferare di serie con donne come protagoniste, presentate come la nuova televisione femminista. Il fatto che una donna sia protagonista però non significa che la storia sia femminista e, se vado a vedere le liste di serie TV “femministe” che vengono proposte, le protagoniste sono quasi sempre donne bianche.
«Questo fa parte di problemi cui mi riferivo all’inizio, le ragioni per cui continuiamo ad avere un’industria, sia statunitense che italiana, che fa molta fatica a ragionare in termine di rappresentazione di corpi diversi, ha radici economiche. Si pensa che in qualche modo non si raggiungano fette di pubblico sufficientemente ampie rappresentando corpi diversi da quello bianco e conforme. Poi guidano i talent: se sto cercando grosse attrici o attori con già un seguito di pubblico per queste storie, li trovo in un’industria dove non ci sono attrici o attori non bianchi e non conformi con un grosso seguito. È un cane che si morde la coda, è per questo che le cose continuano a non cambiare: per fare soldi occorrono persone che abbiano già avuto grandi successi, ma ci sono poche persone che possono o si sentono di fare un investimento di partenza su un corpo che non è frequentemente rappresentato».
C’è una personaggia che hai visto e hai pensato: “Oh, finalmente!”
«Ne ho tantissime in realtà: una a cui mi sono molto affezionata, scritta in un modo stratificato e complesso, è Sidney di “The Bear”, appunto una ragazza nera. Mi ha interessato il suo arco di trasformazione e il suo sviluppo eroico: l’ho trovata estremamente ben recitata e ben scritta, cuire della storia. Anche la protagonista di “Pachinko” è una grandissima protagonista, Giannina de “La vita bugiarda degli adulti” è una grandissima protagonista. Ce ne sono tante, per fortuna: quello che andiamo divulgando da un po’ di anni inizia ad avere un senso, e finalmente iniziamo a vedere donne con caratteristiche diverse, e possiamo apprezzare tanti tipi di personagge diverse».
Perchè però c’è questa resistenza, da parte di una fetta di pubblico maschile, a contenuti che dipingono donne o persone che non si sentono rappresentate da nessuno dei due orientamenti sessuali prevalenti? Mi ricordo la levata di scudi quando uscì “Capitan Marvel”, o quando a “Black
Panther” la protagonista era Shuri e non T’Challa. Cos’è che li terrorizza?
«Gli togli la sedia da sotto il sedere: queste sono persone che per tutta la vita si sono considerate il default del mondo perché, sistematicamente, lo sono e tali si considerano. Basta pensare come la nostra lingua preveda il maschile sovraesteso: quando diciamo “Ragazzi ci siete tutti?” stiamo di fatto cancellando l’esistenza delle donne. Lo standard è quello maschile, la donna è sempre la differenza. Quando togli la
sedia sotto al sedere dell’uomo e al suo posto metti una donna l’uomo si allontana, e questo è parte del problema naturalmente.
Quello che mi sento di dire io è che se ho un film su venti in cui la protagonista è femminile la rappresentanza maschile resta 19 a 1, quindi non è che la rappresentanza maschile venga a mancare.
«Ma è proprio quello il punto: vivendosi come default vivono la difficoltà di essere loro la differenza, ed è una sensazione che crea grande spaesamento perché viviamo in una cultura fallocentrica al 100%».