bluagata

I Bluagata, band darkwave/electro-rock pratese, ha fatto uscire da poco il nuovo video, tratto dal secondo lavoro: Freedom/Treason è disponibile su Youtube e sui canali della band e l’EP, The disguises of evil, è ascoltabile sulle piattaforme streaming.

Ma il punto non è solo questo: il punto, quello vero, è l’importanza della cultura in un momento in cui la cultura è stata fermata, mentre all’interno delle case se ne consuma in misura massiccia. Serie TV, film, dischi, libri, intrattenimento: tutti prodotti culturali senza i quali sopravvivere al lockdown sarebbe stato molto complicato.

Ci dimentichiamo sempre di una cosa: l’arte, quella cosa che consumiamo come il pane, la fanno gli artisti. E la posizione degli artisti, in Italia, è sempre stata precaria, sottovalutata e data per scontata: è solo per il loro grande bisogno di esprimersi che molti di loro continuano a farlo perché, parafrasando un ex ministro dell’economia, in questo paese è davvero difficile campare con l’arte anzi: “con la cultura non si mangia”.

Noi non siamo d’accordo. E, a sentire quello che ci hanno detto, nemmeno Alessia Masi e Margherita Bencini, le voci dei Bluagata.

Se vi chiedessi chi sono e cosa fanno i Bluagata, cosa mi direste?
«I Bluagata sono una band di cinque persone. Facciamo rock elettronico in italiano, se proprio dobbiamo indicare un genere, ma non è facile inquadrarci. Il nostro primo lavoro è Sabba, del 2018. Il secondo lavoro è un EP, the Disguises of evil, del 2019. Al di là del genere vogliamo esprimere qualcosa di forte, sia nelle sonorità che nel concetto che sta dietro ciò che scriviamo. Il nuovo lavoro uscirà a breve, ma non vogliamo spoilerare niente».

Come fate a creare musica, che succede appena entrate in sala prove?
«All’inizio un casino (ridono) ma è un casino bello, il caos primordiale, a volte non si capisce nemmeno cosa stiamo facendo! Infatti diciamo sempre che se riusciamo a capirci qualcosa alle prove non c’è palco che possa spaventarci, piccolo o grande: sui palchi piccoli non si sente niente, ma a volte in quelli grandi non si sente niente lo stesso. Ma noi siamo preparati perché tanto alle prove non si sente niente mai!».

Ogni canzone del primo disco è dedicata a una donna processata e uccisa come strega, in un periodo che in realtà è il Rinascimento, non il Medioevo come credono in tanti. Come avete scelto queste donne, e da dove nasce l’idea?
«In realtà l’idea è nata mentre registravamo, insieme al produttore Alessio Tamagni. Via via che le canzoni prendevano forma sembrava avessero il bisogno di essere racchiuse da un unico tema: inizialmente non pensavamo di fare un concept. Parlandone insieme però abbiamo ipotizzato che poteva essere una cosa da fare. Siamo una band che come figure di riferimento ha due donne, cosa comunque non comune, e il messaggio che volevamo mandare è molto chiaro: un messaggio femminista che racconti come la donna sia discriminata nella vita di tutti i giorni, e come nella musica succeda la stessa cosa. Per quanto si possa pensare che le arti possano portare ad aprire la mente, la realtà è che tutt’ora si verificano comportamenti discriminanti: dispiace, perché dopo tutto questo tempo ci rendiamo conto che per raggiungere determinati obiettivi ce ne vorrà altrettanto. Questo ci ha spinto a scegliere il tema delle streghe e della caccia alle streghe: potevamo parlare di questa ideologia del passato che, con le sue falle, continua a esistere anche nel presente».

«Le canzoni non parlano della storia della strega, ma delle discriminazioni che ci circondano: abbiamo scelto di dedicare ogni canzone a una donna per dedicarla a un’idea. È un’immagine comunque molto immediata: fin da bambini siamo bombardati con la figura della strega che fa paura, a prescindere dalla lingua o dal livello di cultura. E’ un’immagine che arriva, e come primo sentimento provoca paura, diffidenza, qualcosa di non tangibile. E questo ci piaceva molto».

Visto che parliamo di streghe e di immagini: voi avete un’immagine molto da “streghe”, con trucco e vestiti neri. Anche senza aprire bocca il primo impatto c’è subito. Inoltre alcuni studiosi hanno affermato che nel passato, ma anche nel presente, l’unico modo in cui le donne potevano avere potere, avere un’immagine che incutesse timore e rispetto, nel bene e nel male, era essere “streghe”, cosa che fa si che le streghe abbiamo tutt’ora un grande fascino su di noi.
«È vero, è l’immagine per eccellenza della donna che si ribella a determinati stereotipi, ed è sempre quello: è l’immagine della strega da sempre. La donna che non vuole essere confinata nello stereotipi della brava moglie: leggendo le storie di queste donne, alcune erano proprio questo. Magari una era ambita nel paese perché bellissima, o non si era sposata, o non rispettava lo stereotipo della donna di casa. Se ci guardiamo intorno oggi quante di noi non hanno queste caratteristiche? Non siamo finite su un rogo semplicemente perché oggi non si può fare, ma lo si può fare sotto altre forme: verbalmente, o con tutta un’altra serie di violenze che non si limitano a quelle fisiche. Sono tutti modi per impedire alle donne di sentirsi prima di tutto libere, e di avere potere sulla società. Di essere influenti, di contare qualcosa».

«La nostra musica vuole essere uno stimolo che faccia capire che, come tutti, noi possiamo fare tutto. Noi siamo solo uno strumento, e vogliamo che le persone che ci ascoltano si sentano stimolate. O disturbate, ci va bene lo stesso. Deve scattare qualcosa, qualsiasi cosa».

Anche perché non avete il classico approccio da “faccio un sorriso al pubblico”.
No, assolutamente. I sorrisi li facciamo dopo, perché è importante far vedere anche il lato più leggero: ci vuole un equilibrio fra la parte più severa e quella più leggera perché, comunque, stiamo facendo musica. Che è comunque una professione. Ci sono delle persone che ci vivono con questo lavoro.

C’è chi dice che siete inquietanti, ma nel senso che date quella sensazione che può provare un appassionato di horror quando finalmente trova un bel film. Gli piace farsi spaventare perché finalmente ha trovato un bel prodotto.
«Non può che farci piacere! Soprattutto per alcune canzoni, nate per questo scopo. La cosa buffa è che queste canzoni hanno un lato inquietante, ma la cosa più inquietante è la realtà. Poi certo, noi scegliamo dei mezzi e dei modi di comunicare che possono spaventare: video con bianchi e neri spinti, foto…infatti ci sentiamo di ringraziare Mauchi, che se ne cura. L’immagine che vogliamo che arrivi è inquietante, ma ciò di cui parliamo è la realtà che ci circonda, questo è quello che fa più paura. La vita di tutti i giorni con le paure e le insicurezze che può avere una donna: sentirsi inadeguata, perché anche questo vuol dire essere donna oggi. Non sentirsi all’altezza. E pensa che noi apparteniamo a una fascia privilegiata, possiamo solo immaginare cosa significhi vivere situazioni peggiori della nostra».

«Nel secondo lavoro, The disguises of evil, affrontiamo tutte le forme del male in un concept: ogni canzone ha, come titolo, un elemento fondante della società dietro cui si nasconde un duplice aspetto, positivo o negativo. Può essere la tua famiglia, ma anche il luogo dove avvengono fatti spiacevoli. Ragazze traumatizzate, violentate, picchiate. Violenza fisica e verbale che purtroppo ha come teatro la famiglia, il posto di lavoro, la chiesa. Tutti elementi che sono fondanti, ma che possono nascondere altro. Vogliamo che gli ascoltatori si chiedano quale sia il positivo e il negativo, perché non è così scontato».

«Per noi non è una passeggiata suonare e cantare certi pezzi: è piacevole perché è arte, ti libera, ti apre dei canali, ma è andare ogni volta a ripescare argomenti che comunque sono stati dolorosi, che portano della rabbia dentro. C’è sempre una sofferenza con cui abbiamo fatto pace. Forse è anche per questo che arriva questo messaggio di inquietudine. Le arti servono proprio a questo, a canalizzare quello che abbiamo dentro. Cosa che fa si che la distinzione fra chi ci mette qualcosa dentro e chi no sia evidente, indipendentemente dalle luci e dallo schermo».

Parentesi attuale: è uscito il video di Freedom/Treason.
«Sì, volevamo chiudere il cerchio della tematica del male che ci portiamo dietro da Sabba, anche se non abbandoneremo mai questa immagine. Con Freedom/Treason parliamo della società stessa, delle altre persone che ci giudicano e, tornando alla storia delle streghe, tante volte ha svolto un ruolo chiave: il pregiudizio della comunità è stato il fattore scatenante che le ha portate davanti all’inquisizione, cosa che calza a pennello anche adesso. Ci rendiamo conto più di prima, essendo in emergenza, di quanto sia importante sostenerci a vicenda senza pregiudizi. Finalmente si vedono le fiamme del rogo di cui parliamo dal primo disco».

Entriamo nell’ultima parte dell’intervista: agli artisti, a chi lavora nel campo della cultura, è stato detto che “non sono necessari”, se non quasi pericolosi perché creano assembramenti. Poi si scopre che in quei due mesi in cui è stato possibile esibirsi c’è stato un solo contagio dovuto all’attività artistica e che le persone, in quarantena, hanno avuto un consumo massiccio di arte. Serie TV, musica, cinema, libri: gli artisti possono anche non essere necessari, ma sono ciò che hanno permesso di sopravvivere al lockdown. Quindi potete “divertire e appassionare” quanto vi pare, ma il pensiero di chi questo lavoro lo fa qual è?
«È molto difficile, ma lo era anche prima. Ed è molto triste. È frustrante che i tempi siano mastodontici, che non sai quando potrai suonare, pubblicare nuova musica. Senza le persone che ci ascoltano non potremmo essere qui, anche se è vero che è il nostro modo di sfogare, e lo faremmo lo stesso. Allo stesso tempo ti carica».

«In questa sede non ci sentiamo di esporci da un punto di vista politico, di gestione della situazione: posso solo dire che ci siamo sentiti soli e usati, perché comunque le persone continuano a fruire dell’arte e della musica, ci siamo sentiti scelti al bisogno, come un fazzoletto o un bicchiere. Non è il momento di fare polemiche, ma quando tutto sarà finito e sarà il momento di fare e dire qualcosa saremo in prima fila».

«È una situazione di emergenza, e come tale è giusto che ognuno faccia il proprio mestiere: noi non abbiamo in mano la situazione da un punto di vista legislativo, e facciamo i più vivi auguri a chi sta lavorando in questo campo, perché è difficilissimo. Ma a cosa finite ci dev’essere lo stimolo per pretendere di essere visti: in Italia noi artisti siamo dei fantasmi, ma non succede da adesso. Non è una novità: lo stato d’emergenza ha portato a galla le falle del sistema. Forse è anche colpa nostra, non abbiamo mai preteso di essere conosciuti e di avere il rispetto che ci meritavamo. Perchè il nostro è un mestiere».

Da una parte c’è stato un uso sbagliato delle parole: dire “suonare in questo momento è pericoloso” è corretto, ma far sparire del tutto il soggetto dalla discussione pubblica significa non farlo esistere. E’ stato sicuramente fatto senza cattiveria, ma è successo. Dall’altro lato gli artisti hanno cominciato a premere da poco per le loro istanze: il mondo della cultura ha poca forza per fare appelli e sottoporre all’attenzione generale i propri problemi. Non so se è una colpa o una presa di posizione tardiva, ma è anche vero che è difficile organizzare un mondo così frammentato, con contratti diversificati e atipici.
«È un mondo capillare e molto diviso: i teatri da soli, i locali privati da soli…è molto difficile, ed è anche molto difficile pretendere. Se dovessi chiedere qualcosa, onestamente, non saprei cosa chiedere. Mi auguro che dopo una situazione di questo genere gli artisti, tutti gli artisti, si uniscano per fare qualcosa tutti insieme che duri giornate, settimane o per sempre. Insieme, senza divisioni né gelosie. Nessuno ruba il lavoro a nessuno: è un sentimento che non c’entra con l’arte. L’arte dovrebbe eliminare questo pregiudizio, ma se sei tu stesso a farlo il messaggio che darai sarà divisorio e sbagliato: è un atteggiamento che è stato ereditato dal campo manageriale e di arrivismo personale, ma essere artisti non deve voler dire far fuori tutti gli altri. Dobbiamo scambiarci i concerti, organizzarli insieme: solo così si arriva davvero da qualche parte. Serve l’aiuto di tutti, e invece tante volte succede il contrario: le situazione di emergenza servono a cambiare questi atteggiamenti».

«Purtroppo però agli artisti viene ancora chiesto: “Si, ma cosa fai di mestiere?” e chi ha detto che non siamo necessari è lo specchio della società. La classe politica è lo specchio di quello che siamo, non sono degli alieni venuti dallo spazio per governarci: frasi del genere non si sentono solo in televisione, si sentono appena esci di casa. Questo è il problema fondamentale che si porta dietro tutta una reazione a catena».

Avete detto che non sapreste cosa chiedere: è possibile che il problema sia dovuto al fatto che non volete qualcosa di tangibile, ma il rispetto? Ed è difficile avere il rispetto se ti chiedono “si, ma che lavoro fai sul serio?”
Se le leggi le avessero fatte gli artisti il mondo sarebbe molto diverso: questa società però, guidata dal consumismo che non presuppone che ci sia tempo per dedicarsi a qualcosa di non tangibile, fa sì che tu debba rivedere ciò che chiedi perché abbia una tangibilità. Noi viviamo qui, quindi dobbiamo adattarci: sarà bellissimo confrontarci insieme per chiedere qualcosa di tangibile che possa dimostrare, per chi non la pensa come noi, una dignità lavorativa in quanto artisti. Riflettendoci quello che chiederemmo è una riflessione al contrario: iniziare a pensare a un matrimonio senza la musica, un funerale senza la musica, niente sessioni di musicoterapia, capire quanto sia presente l’arte, in generale, nella nostra vita di tutti i giorni. Via i quadri, via la musica in macchina, via i pennarelli dal supermercato, via i dischi, via la suoneria dal cellulare. Con una riflessione di questo tipo, finalmente, ci renderemo conto che dire che l’arte non sia necessaria significa parlare del niente».