Il Festival delle Colline ha finalmente preso il via. Una macchina collaudata da oltre quarant’anni a cui quest’anno è stato cambiato il motore, causa nuove regole sanitarie che tutti conosciamo. Ma lentezze o intoppi non ce ne sono stati. L’idea del doppio spettacolo è risultata vincente. Due platee differenti, la prima sotto l’ultimo sole prossimo al tramonto, la seconda sotto una luna rossa e piena come non mai, hanno assistito al primo “double feature” musicale delle Colline con tutto l’amore, l’attenzione e l’impazienza del caso.
L’app delle prenotazioni, il QR code convalidato all’ingresso, l’assegnazione dei posti (congiunti o separati, da dichiarare), la sanificazione di rito, e via andare. Tutto liscio. E anche quello che gli organizzatori temevano di più, ovvero le prenotazioni (gratuite) che poi non si sono presentate sono state in numero contenuto: una decina poco più per lo spettacolo delle 19, qualche unità per quello delle 21,30. Il contrattempo ci sta, per carità, anche se sarebbe bene disdirla, quella prenotazione – dall’app si può fare. Per questo, forse, chi si trova in lista d’attesa, forse fa bene a presentarsi all’ingresso dei prossimi spettacoli, non si sa mai. E così, nel parco della Villa Il Cerretino di Poggio a Caiano, eccoci lì a salutare l’inizio degli spettacoli dal vivo, come fosse un’estate qualsiasi.
La musica? Prima Claudio Domestico, in arte Gnut. Cantautore napoletano, gran raccontatore di storie. Un modo gentile di porsi – dovuto anche ad un timbro vocale veramente unico, con cui potrebbe emozionarti anche raccontando un catalogo di profilati plastici – anche quando le parole sono taglienti come lamette, per rifarsi alla storia di “Solo una carezza”, o quando mette in musica le poesia di Alessio Sollo, l’ultimo dei poeti dall’attitudine punk, con cui insieme hanno creato quella “L’ammore ‘o vero” che rischia di essere già un classico.
Poi gli OoopopoiooO. Attenti alle o iniziali e finali e alla maiuscola finale. Vincenzo Vasi (da anni stretto collaboratore di Vinicio Capossela) e Valeria Sturba. Due tavoli pieni di pispoli, un violino, un basso, tanti giocattoli sonori, e soprattutto due Theremin, spesso l’uno in contrappunto dell’altro. Un approccio tra la follia e il gioco, che loro definiscono elettrodadaismo. Una proposta apparentemente difficile, quasi zappiana, stemperata da un modo di stare sul palco assolutamente ironico, quasi fossero due mostri dei cartoni animati. Una musica culturalmente molto alta interpretata come se fosse un gioco per bambini. Un’idea geniale, che se l’ascolti soltanto ti perdi la metà dello spettacolo. Tra i momenti salienti del loro set, la storia di un topolino che sta tra il Trio Lescano e gli Art of Noise, una presa in giro del jazz inteso come scudo culturale dietro cui i musicisti si nascondono per darsi una rispettabilità, una versione malata di White Rabbit dei Jefferson Airplane e il loro capolavoro/inno dal titolo “Elettromagnetismo e libertà”. Quell’elettromagnetismo che sta alla base del loro strumento principe, quella cosa che sembra un’antenna di un’autoradio verso il cielo e che regala suoni cosmici se solo ci muovi le mani accanto: un atto già poetico di per sé.