Il progetto Sincronie, giunto quest’anno alla quarta edizione, è rivolto ai ragazzi del triennio delle scuole medie superiori e dell’università, è un’esperienza di vita comune e collaborazione per riflettere, insieme ad esperti, sui grandi temi della contemporaneità.
Questo è il primo dei contributi prodotti dagli studenti del Copernico presenti a Sincronie, di cui Pratosfera è media partner.
Il tema del primo giorno (9 settembre) sono state le dipendenze, di qualsiasi tipo. Da sostanza, ma anche le cosiddette dipendenze da non-sostanza: l’azzardopatia (gioco d’azzardo patologico), la dipendenza da internet e la dipendenza da videogiochi, sempre più popolare tra le classi più giovani. Al teatro Magnolfi è arrivato ospite anche Simone Feder, psicologo, che da lavora anni nelle strutture della comunità “Casa del Giovane” di Pavia dove è coordinatore dell’Area Giovani e dipendenze.
Molti i temi trattati. Feder ha raccontato prima di tutto dell’esclusione dei tossicodipendenti dalla città per preservare un’immagine che attira turisti e non far inorridire cittadini, nascondendo il problema sotto il tappeto. Poi ha affrontato le condizioni che generano i problemi di dipendenze, prima tra tutte “uno spontaneismo relativista che spinge i ragazzi a crescere, pensando solo a diventare grandi, crescere con genitori senza posizioni chiare e con messaggi discutibili, i quali, presi dalla necessità di portare avanti economicamente la famiglia, trascurano l’educazione dei figli. Figli immersi in un mondo dove la trasgressione viene normalizzata e la memoria storica è azzerata, essendo il problema delle droghe per niente nuovo ma comunque pesantemente presente”.
“Simone Feder ci ha spronati ad aiutare, a considerare i tossicodipendenti come persone, che hanno soltanto bisogno di una mano che li tiri fuori dalla loro fossa, prima che diventi troppo profonda – spiegano gli studenti presenti all’incontro – essenziali sono anche i piccoli gesti. Feder ci ha raccontato di quanto sia importante anche lo stringere una mano ad una persona persa e distrutta da una dipendenza famelica, chiamarla per nome, guardarla negli occhi, far trovare un motivo per cui andare avanti e farle capire di essere ancora umana. Ci ha raccontato del “boschetto”, il più grande centro di spaccio dell’Italia settentrionale, situato a Rogoredo, quartiere della periferia milanese, distante soli 7 km dal centro. Questo non-posto è abitato da una folla di spettri: tossicodipendenti di ogni età, mamme che entrano con bambini in braccio e giovani vite distrutte da un mostro che ti mangia dentro, che un attimo prima ti aliena dalla società, ma l’attimo dopo ti ci rilancia come un pezzo di carne in una gabbia di leoni. Si spacciano cocaina ed eroina, e tutti i proventi vengono gestiti dalla criminalità organizzata”.
L’intervista a Simone Feder
Come mai ha scelto di occuparsi di queste tematiche e quando ha iniziato?
“Ti parlo dell’ultima dipendenza di cui mi sono occupato: l’azzardo. Era un mercoledì mattina di novembre del 2005 e, nello spazio aperto al confronto e all’ascolto da noi gestito nella città di Pavia, è arrivato un ragazzo di 15 anni con il padre. Io esordii dicendo: “Cosa ha mai combinato questo ragazzotto?”. Pensavo volesse cambiare piano di studi o che avesse cominciato con gli spinelli. Fu lì che Fabio, il figlio, si alzò e disse: “Sono io che ho portato papà, non potevo rimanere indifferente di fronte alla sua dipendenza dal gioco d’azzardo”. Sono le situazioni che ti cambiano e che ti spingono ad impegnarti per cercare di risolverle”.
Come mai, nonostante si sappia così tanto sul boschetto della droga di Rogoredo (Milano ndr), gli aiuti a queste persone giungono da persone come lei e non direttamente dallo Stato?
“Le istituzioni in questo campo sono state un po’ carenti, il disagio è un fenomeno che va studiato; perché si è creato questo posto? Come mai si è sviluppato? Per quale motivo si mantiene? Queste sono le tre domande che chi vuole approcciarsi alle vicende del boschetto deve porsi. Ci sono situazioni che causano preoccupazione, come l’Expo tenutasi a Milano nel 2015, la quale ha generato tutto ciò, ha magnificato questo disagio, ha creato questi fortini della droga. Per rendere Milano più appetibile, più carina, più vivibile, hanno spostato tutto il disagio che si è creato in questo posto che oramai è fuori controllo. Non solo io mi sto occupando di queste vicende, lo sto facendo insieme ad altri educatori, associazioni e giovani come voi che non accettano di vedere dei coetanei essere dipendenti da questo mondo di sostanze e si impegnano e ci spronano a continuare nel nostro lavoro”.
Com’è cambiato l’uso delle droghe nel corso degli anni?
“Adesso è molto più repentino. C’è un disagio molto sfacciato. Famiglie che faticano a leggere la vulnerabilità giovanile. C’è un sacco di offerta e tanti giovani che rischiano di perdersi a causa della loro disattenzione a vivere l’altro, ma soprattutto sostanze con principi attivi sempre più forti. In questo periodo la nostra attenzione si è concentrata sulla shaboo, importata dalla comunità filippina ma che probabilmente a Prato è già molto presente all’interno della comunità cinese: è dieci volte più forte della cocaina ed il suo effetto ha una durata molto più lunga. Allo stesso tempo, c’è un pericoloso “ritorno in scena” dell’eroina”.
Si dichiara favorevole o contrario alla legalizzazione delle droghe leggere? Se no, per quali motivi, e se sì, imporrebbe dei limiti al consumo?
“Per me entrare in questo mondo e in questi argomenti è sintomo di bassezza culturale. Oggi è obsoleto parlare di droga; la cosa che deve preoccuparci è il disagio: ciò che ci sta dietro, non la punta di questo grande iceberg. Oggi il problema sono la chetamina, la cannabis, l’eroina? Io dico di no, il problema è il disagio. Ecco come mai, quando incontri il disagio e stai dentro la relazione con l’altro, la cosa che lo porta a cambiare non è tanto la risposta clinica che viene fornita, ma è quanto tu stai con loro. In questo modo ti rendi conto che ragionare su legalizzazione e liberalizzazione, in questo momento, non ha senso. Io, a Rogoredo, dico sempre ai ragazzi: “Datemi una ragione per iniziare a bucarmi con voi e io lo faccio”. Ancora, dopo anni, attendo una risposta. Il focus è da spostare su tutt’altro. Ciò che porta i ragazzi a curarsi e a ritornare a vivere è proprio la ragione per cui vivere. In Colorado, dove la cannabis negli smartshop ha un costo di circa 10 dollari al grammo, ma, in strada, viene smerciata dai pusher a meno di un dollaro al grammo, tu che cosa faresti se fossi un tossico? Sicuramente l’andresti a prendere al prezzo minore”.
Articolo e intervista a cura di E. Borselli, A. Nuzzo, E.Baldi, M.Brugno
Qui un’intervista di Gramellini a Simone Feder