Il concerto di ieri sera doveva essere un double feature, un doppio spettacolo, all’insegna della follia e di un’America fuori dalle righe. Prima gli Eels (ovverosia Mark “E” Everett, nativo di Richmond, Virginia), poi i Flaming Lips (combo psichedelico originario dell’Oklahoma). Si è rivelato qualcosa di più e di meglio. Si è rivelato, così, e inaspettatamente per i più, l’evento imperdibile del Settembre – Prato è spettacolo. Ma andiamo per ordine.
Gli Eels cominciano alle 20,15. Mark “E” Everett ci ha abituati a continui cambi stilistici e di settore, nei dischi come nei live. Poteva presentarsi da solo come in gruppo, in versione acustica, elettrica, orchestrale, tante e tali sono le facce del nostro. Per il live del 2019 la scelta è andata sul rock’n’roll. Jeans nero, occhiale scuro, schietto, pulito, più britannico che statunitense nel gusto. Dalle parti dei Clash e dei Jam, geograficamente. Due chitarre, basso, batteria. Due cover degli Who e di Prince per cominciare, poi tutte le sue canzoni più famose, quelle di Beautiful Freak e di Electro-Shock Blues, quelle canzoni a metà tra l’elettronico e il classico, tra Beck e Neil Young, che tanto hanno fatto impazzire gli alternativi degli anni 90. Ieri sera Beck non c’era, e Neil Young faceva capolino ma solo ogni tanto. Niente elettronica, solo riff potenti e secchi, un ritorno ad un rock’n’roll essenziale e senza fronzoli. Tutto sta nella dichiarazione di fine concerto: “God bless Pete Townsend, Brian Wilson, Prince and Ringo Starr” mentre la band concludeva con il frammento della beatlesiana “The end”. Il tutto finisce alle 21.30 poco più. Iniziano i preparativi per il delirio.
Fanno la loro comparsa due amanite muscaria di un paio di metri l’una ai bordi del palco. Il retropalco diventa una tenda elettronica di led. La disposizione degli strumenti sul palco è asimmetrica quanto originale. Due batterie, tre tastiere di cui una per terra, altri ammennicoli poco identificabili. E colori, tanti colori, mille colori. Alle 22 poco più la band sale sul palco e suona l’Also sprach Zarathustra di kubrickiana memoria. E’ solo l’introduzione. Poi, l’esplosione. Race for the Prize. Un pezzo pop perfetto a corollario di uno dei più divertenti inizi di show a cui mi sia mai capitato di assistere. Una pioggia, una vera alluvione di coriandoli che ricorda la Purple Rain princiana degli ultimi concerti, ma dai mille colori. Un arcobaleno di colori accecanti. Decine e decine di palloncini che rimbalzano sulla folla. E tu, lì in mezzo, che salti e giochi in quel parco di divertimenti che ti è stato costruito intorno cullato da un pezzo che non crea, ma che è quello stesso, la felicità.
Questi sono i Flaming Lips. Avevo letto dei loro show tra il sogno e il cartoon, tra l’allucinato e l’allucinogeno, pieno di gonfiabili e di stelle filanti, ma non immaginavo un impatto così coinvolgente sul pubblico. L’intera piazza è completamente rapita in un gioco di luci e di suoni sfavillante, meravigliati di quello che succedeva intorno a loro. E i Flaming Lips, novelli Willy Wonka, ti portano nel loro mondo di amore e felicità esagerata, a colpi di citazioni beatlesiane e floydiane, raccontandoti la storia di Yoshimi che combatte i Pink Robots (e un robot rosa di quattro o cinque metri sta giusto dietro il cantante), quella del fatto che devono esserci gli unicorni (“There should be unicorns”) e Wayne Coyne, il cantante, ne cavalca uno con delle ali color arcobaleno in mezzo alla piazza. Poi ti parlano dell’Ipnotista, e il gioco di luci si fa geometrico, in bianco e nero, pronto ad ipnotizzare anche te. Alla fine ti portano oltre l’arcobaleno (“Somewhere over the rainbow”, un classicone del Mago di Oz) dentro una palla trasparente che cammina sopra la folla. E’ l’apoteosi. Il concerto finisce con le note di “What a wonderful world” dal disco di Louis Armstrong mentre si inizia a smontare la giostra. La gente si guarda felice. Non mi capitava da tempo, una sensazione così, alla fine di un concerto. “Fuck yeah, Prato”, come recitava un palloncino, anzi, una delle architetture gonfiabili esposte dal cantante.
I Flaming Lips vengono dalla psichedelia, e senza dimenticare le origini stavolta hanno lasciato il lato malato e oscuro in virtù di un gioco gigantesco e glitterato, talmente esagerato da non poter essere vero. Tutto quel bene, tutta quella felicità, in realtà non esiste. E quindi era bellissimo essere dentro questo cartone animato dai colori accesissimi e dalle melodie trascinanti. Sì, il retrogusto continuava ad essere un po’ malato, per forza, ma il gioco allucinatorio era talmente perfetto che non ci facevi caso.
Seguo i Flaming Lips e le loro follie da una ventina d’anni
e non li avevo mai visti dal vivo. La sorpresa è stata grandissima, e più
grande ancora è stata per coloro non li conoscevano e che in piazza sono stati
travolti da tanto show. Non lo so se è il miglior concerto che abbia mai visto,
quello forse no, ce ne sono altri che hanno avuto un impatto emotivo molto più
forte di quello di ieri sera. Ma tra i più divertenti della mia vita, di
sicuro. Lunga vita ai Flaming Lips e ai loro unicorni colorati.