“Cittadini del mondo – Passaggio in India” è nato e si è consolidato negli anni grazie al contributo di persone molto diverse fra loro: professionisti sanitari, educatori, psicologi, volontari, utenti con disagio psichico, studenti e immancabilmente grazie alla presenza solida e costante delle Suore Domenicane di Santa Maria del Rosario (Villa Martelli, Prato).
Durante i 10 anni del progetto proprio le suore sono state determinanti nel progressivo realizzarsi dello stesso, grazie alla loro ospitalità e accoglienza, grazie ai loro consigli e ad una inconsueta apertura nei confronti della diversità. Per questa ragione, abbiamo voluto dare spazio alle loro parole, interrogandole e confrontandoci con loro in maniera autentica.
Com’è nato “Cittadini del Mondo – Passaggio in India”
“Il progetto “Cittadini del mondo – Passaggio in India” è nato da un’idea mia e di Luciano Giusti con l’obiettivo di far scoprire l’India, che ho sempre amato profondamente, ai pazienti psichiatrici del Dipartimento della Salute Mentale di Prato: permettere loro di viaggiare e aprire la mente verso un nuovo mondo”, racconta madre Paola.
“Inizialmente, non erano chiare le idee né gli obiettivi del progetto, non c’erano soldi e abbiamo dovuto cercare deif inanziatori per sostenere il viaggio dei nostri 30 utenti. E’ stato importante ascoltare la richiesta del sindaco di Cochin, nel 2007, che desiderava rendere più ‘umano e dignitoso’ il manicomio; ciò prevedeva di lavorare presso il Settlement della città indiana. La prima volta che sono entrati sia i pazienti sia gli operatori che li accompagnavano sono rimasti come pietrificati, ammutoliti nel vedere la situazione all’interno di questo manicomio indiano”.
“Dopo il viaggio, i ragazzi venuti in India, a seguito del lavoro fatto, si sono resi conto che potevano essere utili, che potevano dare un contributo. Da ciò sono nati molti laboratori che hanno permesso a tanti nostri pazienti italiani di riacquistare il contatto con le cose, la padronanza di sé, il rapporto con il denaro, e d’imparare nuovamente il rispetto di orari, regole e di avere costanza. Hanno riscoperto così le proprie capacità e hanno capito che in loro vi erano delle potenzialità”.
“Il problema principale emerso durante il primo viaggio fu l’assenz adi interazione delle persone del Settlement con gli italiani; da qui la necessità per gli anni successivi di organizzare un’assemblea, che inizialmente è stata frontale ed in seguito circolare, per dialogare con gli ospiti del manicomio ed identificare i loro bisogni – spiega madre Paola – Ciò che ha permesso di rompere tutte le formalità è stato un convegno internazionale, nel 2009, proprio all’interno del manicomio, nel quale sono state raccontate esperienze sia di ragazzi italiani che degli ospiti del Settlement. Dopo i primi viaggi è sorta l’idea di coinvolgere persone più giovani, quindi si sono aggregate al gruppo studenti universitari, studenti delle scuole superiori, con l’obiettivo anche di far toccare loro con mano che i pazienti psichiatrici sono persone, proprio come tutte le altre”.
Dialogo fra Suor Filomena, Giulia e Laura
Cosa significa per te accompagnarci in questa esperienza al Settlement?
Siete belli. Io ho conosciuto il Settlement tramite il gruppo, mi sento parte di voi e porto nel cuore il manicomio anche se l’accompagnamento è faticoso.
Quali sono, secondo te, i limiti e i punti di forza del progetto?
Un punto di forza è senz’altro la crescita nel tempo della comprensione delle persone che sono nel manicomio. Ora gli utenti non sono più diffidenti, si mescolano con voi e voi vi mettete al loro pari. Avvicinate ogni persona con tanto amore, li abbracciate, li baciate anche se sono visibilmente sporchi: ciò non crea una barriera; una cosa bellissima che non so descrivere. Voi, però, vivete queste situazioni, ad esempio le donne rinchiuse, con gli occhi di un europeo: Giulia piangeva, la prima volta che ha fatto il suo ingresso lì dentro, quando in realtà loro sono rinchiusi per essere protetti, perché c’è poco personale e per loro è maggiore la protezione dentro questo luogo rispetto all’esterno. Il gruppo deve imparare a guardare le cose dal punto di vista indiano e su ciò dovrebbe potenziarsi”.
Le prime differenze che hai trovato fra India e Italia? E quali sono state le più difficili da accettare?
L’India è completamente diversa in tutto dall’Italia, come nella lingua, nel cibo, nel clima. Voi volete fare tutto e subito, noi pensiamo “poi vediamo, con calma”. Sono stata 21 anni in Italia e la prima cosa che mi ha dato fastidio è stato l’olio d’oliva, però in testa ero consapevole di avere uno scopo ben preciso. Eravamo venti suore molto giovani e ci aiutavamo a vicenda: affrontavamo tutto con serenità e ironia; noi venti sapevamo tutto di ciascuna e delle nostre rispettive famiglie e quando arrivavano le lettere dei parenti ciascuna le leggeva all’intero gruppo creando una bella condivisione. Una condivisione molto forte. E anche i nostri familiari fra di loro erano in contatto ed erano legati attraverso di noi. Madre Paola era la nostra maestra, ci siamo divertite tanto. Quando abbiamo uno scopo nella nostra vita, le difficoltà le superiamo meglio”.
Dialogo fra Suor Rita, Giulia e Laura
Cosa significa questo progetto per te?
Questo progetto è tutto matto. Chi viene dall’Italia ha beneficio confrontandosi con la realtà povera, misera ma ricca di altri valori, dà uno spirito diverso di affrontare la vita. Quando sei in India ti rendi conto dei valori veramente importanti, li riscopri, lontano dalla civiltà occidentale globalizzata: confrontandoti con la realtà di qui ti accorgi che molte cose sono fasulle, non sono così importanti per la tua vita. Questo è quello che ho capito io. Il vostro arrivo per noi suore significa questo: ci date la forza di pensare che in qualche maniera vi siamo utili, vogliamo darvi accoglienza e aiuto. Ci rendiamo disponibili per i vostri bisogni, per quello che possiamo dare, un contributo. Uno dei valori indiani fondamentali è l’attaccamento alla famiglia; la famiglia è la base su cui Dio ci ha creati e non si può negarla. Noi donne abbiamo una sensibilità tale che ci riconosciamo spontaneamente nella maternità; tutte le donne hanno questa capacità appresa dai genitori che le hanno amate, accolte e adorate. Ogni donna ha una sensibilità e una maternità intrinseca, caratteristica del femminile. E ce l’ho anche io”.
– Qual è l’importanza di andare a Kolayad insieme a noi, visto che sei stata la fondatrice della missione?
“Kolayad è come tornare a casa, in un posto dove si è costruito qualcosa. Insieme a voi sono ancor più contenta perché ogni volta che vado là, ritrovo un luogo in cui ho vissuto e le persone che ho conosciuto e vi posso far vedere cosa rappresentiamo noi suore per la comunità. La prima volta che sono arrivata all’una di notte, il padre della parrocchia cristiana mi è venuto a prendere in macchina e mi ha dato una stuoia ed un secchio. Io ho chiesto: “A cosa miservono?” E lui: “Dopo lo scoprirai, intanto sali in macchina”. Mentre viaggiavamo, il padre mi ha detto di reggere lo sportello altrimenti saremmo volati di sotto. Alle due di notte, arrivati in convento, il padre mi ha detto: “La stuoia la puoi mettere per terra ed è lì che dormirai; il secchio ti serve per fare il bagno”. Non vedevo niente, era tutto sporco, c’erano animali di ogni genere, scarafaggi, scorpioni e quant’altro… La mattina dopo ho chiamato il padre e ho detto: “Ho bisogno di un imbianchino, ho bisogno di vedere”. E’ lì che ho imparato ad uccidere i serpenti perché quando questi animali erano nei dintorni, tutte le sorelle scappavano, ma io mi facevo coraggio nonostante fossi terrorizzata, perché avevo uno scopo e se avessi mostrato la mia paura, le altre cosa avrebbero fatto? Volevo andare via, ma mi ripetevo che non sarei andata via neanche morta finché non fossi stata mandata via dalla congregazione. Mi ripetevo: “Io rimango qua e faccio tutto quello che devo fare”.
Tramite il ruolo che svolgi come cittadina indiana, come fedele accompagnatrice di questo gruppo, quale messaggio speri di trasmettere e quali cambiamenti vorresti vedere nel tuo paese che rimane la tua casa?
“Qui io sono una persona, non mi considero indiana. In questo momento vivo in India, sono in India e bisogna affrontare le cose con coraggio e fantasia. Non abbattersi mai di fronte alle difficoltà ed essere forti nella fede. Dio ti prende per mano e davanti agli ostacoli è accanto a te e ti accompagna. E’ necessario accettare tutte le persone, amarle come te stessa, come tue. Vorrei che tutti avessero questo scambio nell’amore, sostenendosi a vicenda: ad esempio, se siamo in gruppo ed una persona è stanca, solitamente la facciamo sedere e le diciamo che torneremo presto, invece noi dovremmo prenderla per mano, rallentare il passo ed arrivare alla meta insieme. Non succede dappertutto, non succede sempre, non tutte le persone lo fanno. Tu hai la responsabilità di scegliere, di prendere le tue decisioni, tu hai la tua dignità e le qualità che Dio ti ha donato…difendile. Dio ha dato qualità a tutti, che tu sia credente o no, puoi scegliere cosa fare della tua vita e cosa sfruttare di te stesso. Se tu sei donna, in quanto donna devi essereaccettata. Come gruppo create tanta confusione, scombussolate tutto: il nostro orario, la nostra preghiera, ma dobbiamo fare accoglienza per voi, dobbiamo creare spazio per voi. E’ una sfida anche per noi, è come quando nella tua vita entra qualcuno”.
Laura Brogi, Giulia Canensi