Approda in città “Stregoni”, il progetto musicale che da due anni gira l’Italia e l’Europa facendo suonare insieme migranti e richiedenti asilo per cercare di raccontare, attraverso la musica e oltre la retorica, chi sono davvero queste persone.
Domenica 15 ottobre alle 21 “Stregoni” sarà in scena a Lottozero, che con “Occupy Lottozero” festeggia il suo primo compleanno mettendo in fila una due giorni ricca di eventi, musica e workshop.
Ci siamo fatti raccontare “Stregoni” da Gianluca Taraborelli, aka Johnny Mox, il musicista trentino che insieme al marchigiano “Above the Tree” ha dato vita al progetto.
Cosa vedremo a Prato domenica sera? “Stregoni” è un laboratorio, un concerto, una jam session?
“”Stregoni” è tutto questo insieme e forse anche qualcosa di più. Siamo partiti all’inizio del 2016 , io e Above the Tree, con questo progetto che si rivolgeva al mondo delle migrazioni, occupandoci non tanto di quello che succede in mare o ai confini ma di quello che le persone fanno una volta arrivate nelle nostre città. Quindi abbiamo pensato di strutturare una band che, in qualche modo, abbattesse gli stessi confini interni a una band, senza un nucleo fisso. Arruolare un gruppo di richiedenti asilo, magari con talento, che suonasse in giro per il paese non ci interessava. Volevamo conoscere queste persone, cercare di capire chi sono, che musica ascoltano. “Stregoni” non ha una formazione stabile, andiamo nelle città e suoniamo con i richiedenti asilo che abitano lì. Lo abbiamo fatto in giro per tutta l’Italia e l’Europa suonando con più di 2.200 persone diverse, provenienti da vari paesi dell’Africa e dell’Asia. Molti di loro sono dei musicisti eccezionali, altri per niente. Eppure è proprio questo che funziona, a dimostrare che la musica è il linguaggio più potente che esista e che sul palco si può costruire qualcosa assieme”.
Dai centri di accoglienza ai locali delle città che vi ospitano, il passaggio è breve e importante.
“Abbiamo iniziato suonando nei centri migranti, anche perché era più semplice trovare le persone che ci interessavano, ma da subito il progetto ha voluto uscire fuori, nei club, nei festival… Volevamo portare i ragazzi nei posti dove i loro coetanei italiani passano il sabato sera, dargli la possibilità di vedere il backstage (dove ovviamente si fanno un milione di selfie), di cenare tutti assieme. Puntiamo insomma a mischiare le carte in tavola, senza dover ricorrere al termine “integrazione”, che non ci piace molto. In effetti il fatto che tu vada a vedere il concerto dei ragazzi richiedenti asilo che abitano nella tua città e magari li incontri per strada il giorno dopo, è un messaggio potentissimo”.
Tutto inizia dalla musica custodita nei telefoni dei ragazzi. Perchè questa scelta?
“Noi abbiamo sempre puntato sugli smartphone, un elemento chiave di tutto il progetto. Sono gli oggetti più strumentalizzati da chi specula sulla questione immigrazione. Paradossalmente invece sono strumenti preziosissimi per arrivare in Europa quando affronti un viaggio che dura un anno o anche due. E poi sono stracolmi di immagini, video e musica. Quando iniziamo chiediamo a uno dei ragazzi di salire sul palco e far partire una canzone che ha sul cellulare. Questa musica entra nelle nostre loop station e creiamo una base su cui poi si inizia a improvvisare con gli strumenti. Da quel punto in poi il suono diventa di tutti”.
Esiste un filo conduttore nella musica ascoltata dalle migliaia di persone con cui avete suonato?
“Sicuramente il linguaggio di oggi è quello del rap e dell’hip hop, anche perché dà la possibilità di esprimersi senza bisogno di altro, se non la propria voce. È sicuramente il linguaggio più condiviso anche se poi ogni paese ha le sue peculiarità: in Siria ad esempio sono molto legati alla musica tradizionale, in Pakistan e in Afghanistan ci sono suoni ancora diversi, quasi Bollywodiani, in Nigeria c’è l’afro pop, se ci spostiamo in Senegal e Gambia i ritmi diventano più caraibici. Il Mali è il cuore di tutta la musica africana, c’è di tutto, dall’hip hop al blues”.
Improvvisare insieme davanti a un pubblico per dei non professionisti non è semplice. Come si risolvono le criticità, nella musica?
“Questo è un aspetto a cui tengo molto. Per scelta prima di ogni concerto non lanciamo alcun tipo di messaggio, il messaggio è il progetto in sé. Improvvisare con gli esseri umani. A me piace spiegare nell’introduzione che le persone del pubblico stanno per assistere a qualcosa di unico e irripetibile, nel bene e nel male. Metto le mani avanti e questo crea una sorta di empatia. Non è detto che le cose funzionino da subito: come nella vita c’è bisogno di tempo per studiarsi, annusarsi. Ritengo che sia liberatorio il fatto che alcune volte, semplicemente, le cose all’inizio non vanno. In un’epoca di editing e photoshop estremo noi rappresentiamo l’errore e questo ha un che di rivoluzionario. Non è ogni volta un concerto “bello” o musicalmente entusiasmante. Eppure a un certo punto succede sempre qualcosa, e questo giustifica anche il nome che abbiamo scelto – “Stregoni” – di veramente magico, la musica cresce grazie anche all’empatia che si crea col pubblico, arriva e travolge tutto. Chi ascolta si accorge di non essere venuto solo a un concerto ma a conoscere delle persone. E questo la musica può fartelo fare senza bisogno di lingue. Noi cerchiamo solo di dirigere il traffico e limitare i danni. Alla fine dello show tutti i ragazzi si presentano, in italiano, e a quel punto vengono chiaramente osannati come delle star!”
Hai parlato finora sempre di ragazzi. Le ragazze?
“Questa è la fotografia di ciò che è l’immigrazione oggi. Le donne emigrano molto meno. Quindi sì, abbiamo suonato con delle ragazze ma in percentuale minore. Domenica a Prato ce ne saranno un bel po’ a quanto ne sappiamo. Non è sempre semplice coinvolgerle, soprattutto le ragazze africane, ma è una bella sfida”.
Cosa c’è nel futuro di “Stregoni”?
“Abbiamo girato un documentario che racconta tutto il nostro viaggio, da Lampedusa a Malmo, e che dovrebbe uscire entro la prossima primavera. E poi prosegue il lavoro sulla struttura del progetto, ci piacerebbe che riuscisse a camminare sulle sue gambe. L’idea è di aprire un network in varie città che portino avanti “Stregoni” con le stesse finalità ma con persone diverse. Cerchiamo di fare quello che secondo noi andrebbe fatto anche ad atri livelli, ovvero mettere queste persone in condizione di cavarsela, all’interno di un quadro di regole chiaro”.
“Johnny Mox + Stregoni”
domenica 15 ottobre – ore 21 a Lottozero (via Arno). Info +39 340 2787854 – [email protected]