Gli Stones a Lucca. Sotto le mura, in un’area solitamente non adibita a concerti. La storia che si fa spazio nella storia: il non confinare un concerto del genere in uno stadio è una delle idee più belle che un promoter possa avere avuto.
Le cronache di questi giorni ci hanno descritto minuziosamente del jet che atterra a Pisa, degli alberghi presi d’assedio da gruppi di fans e di groupie – o ex tali – dai 20 ai 70 anni, delle cene a base di pesce, di quella volta che Charlie Watts andò a fare la spesa da un sarto fiorentino che non lo riconobbe o di Darryl Jones alla fontana di Filettole. Costume e società, insomma. La musica passa in secondo piano, come sempre. E avendo a che fare con un gruppo che da cinquant’anni fa la storia della musica non è cosa di cui vantarsi.
È più o meno la nona volta che un tour degli Stones tocca il nostro paese, ed è la prima volta in assoluto che suonano in Toscana. La prima volta in assoluto fu per quattro date nel 1967, la prima a Bologna e l’ultima a Milano dove suonarono dopo Al Bano. All’epoca gli organizzatori non sapevano distinguere l’erba buona dalla cattiva, e generavano accoppiate improbabili se viste con gli occhi dei posteri, ma probabilmente del tutto normali per il gusto dei tempi. Quindi i Beatles furono aperti da Peppino di Capri e i Led Zeppelin da Gianni Morandi. Agli Stones, probabilmente, toccò la sorte peggiore.
Dal 1982 in poi, i nostri hanno solo suonato negli stadi (unica eccezione, l’ultima volta in ordine di tempo, nel 2014 al Circo Massimo). Probabilmente, data la location, non sarà un concerto come gli altri. O forse no. A detta degli Stonesiani più duri e puri tra i miei amici, i concerti italiani (a differenza di altri artisti per i quali l’Italia è davvero un luogo dell’anima più che geografico, Springsteen e U2 in testa) non rientrano mai tra i migliori del tour. Scalette troppo basiche, troppo godi-popolo, poche chicche. Meglio i concerti del Nord Europa, o quelli in America Latina, più densi di sorprese e più sentiti a livello di audience. Il pubblico italiano, storicamente, ascolta ma non “sente” gli Stones. In attesa che questa cosa venga smentita, vediamo cosa è lecito aspettarsi da questa data del No Filter Tour. Non parlo di scenografia o di effetti speciali: per quelli chi vivrà vedrà. Parlo solo di musica, di alcuni momenti di una scaletta ipotetica a giudicare da quello che hanno inanellato nei giorni scorsi.
La simpatia per il diavolo. Sympathy for the devil. L’ “Uh-uh” più sinistro e sardonico della storia dei cori del rock dovrebbe aprire il concerto. Tanto per mettere le cose in chiaro: noi siamo quelli di sempre. Non ci è presa la mistica, come accade di solito anche all’ateo più ateo con lo scoccare degli anta. La ricerca di spiritualità non va a braccetto con i riff nervosi ed elettrici di Keef, e non ci andrà mai. Caro Satana, siamo sempre qua, e siamo più o meno tutti. Spero tu ti ricordi il mio nome.
Il blues delle origini. Blue and Lonesome. L’ultimo disco dei Rolling Stones l’hanno realizzato in tre giorni suonando degli standard blues così come gli vengono. Cioè parecchio bene. Minimo sforzo, massima resa. Nessuno ha gridato al miracolo, nessuno ha gridato allo scandalo. Poco da dire: quando fanno le cose che sanno fare, sono ancora grandissimi. Un paio di questi blues dovrebbero scaldare il pubblico verso l’inizio della scaletta, in attesa di pezzi più attesi. A volte “Just your fool”, a volte “Hate to see you go”, più spesso “Ride ‘em on down”. Mick Jagger all’armonica, così, non lo sentivamo da secoli. Ci ritornerà, ovviamente, su “Midnight Rambler”, verso la fine del concerto.
Il pezzo dimenticato. Dancing with Mr. D. Per alcuni Mister D è ancora una volta un demone, dall’aspetto femminile, dedito alla seduzione. Per altri è la morte stessa che ti invita a ballare. Non siamo lontani da Sympathy for the Devil. Comunque, un pezzo che non suonavano dal vivo dal 1973. Un grande riff di apertura. Una bella sorpresa.
Il grande freddo. You can’t always get what you want. Per chi scrive, il Pezzo dei Rolling Stones. Quello che muove alla lacrima. Non puoi avere quello che vuoi, ma se ci provi puoi avere quello di cui hai bisogno. Non a caso, la colonna sonora del funerale più famoso della storia del cinema degli anni ’80. Un blues bianco denso e toccante. Nel 2014 si facevano accompagnare da un coro di voci bianche per l’esecuzione dell’intro. Stavolta si torna all’essenziale. Il rock’n’roll sopporta poco certi fronzoli, specie se annunciati.
Nulla di nuovo. La scaletta pesca dal repertorio dei nostri dal 1965 di Satisfaction al 1981 di Start me up, l’ultimo vero classico targato Stones. Negli anni successivi i nostri non hanno certo brillato in prolificità (solo 6 dischi di inediti in 35 anni) ma in questo tour, di quei dischi là, non ne troveremo traccia. Il tempo si è fermato, per chi suona e per chi ascolta. E forse, meglio così.
I pezzi che canta Richards. Sono due, in scaletta, come per ogni tour, prima del gran finale. Un momento che ogni fan aspetta. Anche perché di solito sono sempre quelli. “Happy” c’è sempre. Stavolta tocca a “Slipping away”. Mica male.
La (solita) Storia. Gimme Shelter. Honky Tonk Women. Satisfaction. Miss You. Brown Sugar. Tumbling Dice. Street Fighting Man. Forse non tutti, forse non tutti insieme. Ma molti, di sicuro, sì. Il concerto degli Stones è un rito, ha la sua liturgia, i suoi momenti obbligati a cui la gente risponde, felice, carica, rassicurata. Lunga vita al rock’n’roll. Jumpin Jack Flash, it’s a gas. Amen.