Poche settimane fa sono stati commemorati i venticinque anni dai giochi olimpici di Barcellona 1992, definiti orgogliosamente dai media locali come “i migliori della storia”. In effetti il movimento olimpico risorse proprio dopo quell’edizione, la prima dopo molto tempo a non soffrire boicottaggi e a non chiudere in deficit economico o con infrastrutture in disuso. Ma, ancor più che il movimento olimpico, a risorgere fu la stessa Barcellona.
Sconfitta nella Guerra Civile Spagnola, mortificata urbanisticamente durante il Franchismo, senza autostima e convinta della propria bruttezza, Barcellona aveva saputo approfittare dell’evento sportivo per rifondarsi nel corpo e nello spirito. Il suo programma di rigenerazione urbana ha fatto scuola nel mondo –il cosiddetto “modello Barcellona”- e ha sedotto architetti, urbanisti e sindaci un po’ dappertutto (chi non ricorda il sindaco di Stromboli in “Caro Diario”?).
Sul piano morale poi, il successo di Barcellona ’92 costituì un inatteso colpo di fulmine della cittadinanza per la propria città, improvvisamente rivelatasi bella, attrattiva e soprattutto vivibile, accogliente, festosa. Certamente il nesso più evidente di questa doppia rinascita fu il piano di interventi sullo spazio pubblico. Piazze, strade, viali, passeggi, spazi di risulta trasformati in magnifici scenari di vita urbana (complice un clima benevolo) che hanno dimostrato che il diritto alla città è, in essenza, il diritto a godere dei suoi spazi comuni. La mia città diventa un’estensione di casa mia e posso andare dove voglio quando voglio a fare quel che voglio con l’unico limite del rispetto per i miei concittadini e della città stessa che è, appunto, casa mia.
A Barcellona tutto questo si riuscì a fare o, per lo meno, si pensò di essere riusciti a farlo. Dopo essere stata l’esempio mondiale di come è possibile migliorare una città approfittando di un grande evento e senza buttare i soldi, Barcellona è ora anche la prima città a interrogarsi sugli effetti negativi del successo turistico e dell’investimento immobiliare globale. Sia i 23 milioni di visitatori annui, sia la pioggia di milioni di euro dei compratori internazionali hanno provocato il timore che quanto ottenuto con la rinascita olimpica possa essere perso per colpa del suo stesso successo.
Se la mia strada diventa più bella e poi tutti, ma proprio tutti, vogliono venirci prima a passeggiare e poi a comprarne le case, io residente cosa conto? La Rambla era l’esempio più evidente di questo dubbio. Arteria storica conosciuta e amatissima in tutto il mondo, l’emblematico passeggio di Barcellona è diventato ormai una sorta di tapis-roulant tra la centralissima piazza Catalogna e il porto, attraversata ad ogni ora da fiumi di turisti (ironico: qui scorreva un fiume e rambla vuol dire “torrente”) spesso in ebbrezza pre o post spiaggia.
Accanto al degrado visivo può essere osservato, quasi palpato, l’impauperimento sociale provocato dal progressivo abbandono dei residenti sotto la pressione di un investimento immobiliare piccolo o grande ma finanziariamente spregiudicato e dalla metamorfosi commerciale dei negozi immancabilmente convertiti in mini-market con souvenir.
Quando, nel marzo scorso, il Comune ha lanciato un concorso internazionale di progettazione per il ripensamento della Rambla, la vera unica richiesta è stata chiara: non ci interessano un pavimento figo, dei lampioni techno o delle fioriere di design; ci interessa restituire la Rambla ai suoi abitanti, farla tornare viva, recuperare lo spirito con cui era già stata salvata da un degrado terribile (prostituzione, delinquenza, droga) proprio prima delle Olimpiadi del ’92. I risultati del concorso ancora non sono pubblici ma quanto accaduto giovedì scorso proietta un’ombra lunga
sulle proposte e obbligherà alla loro rilettura.
Tanto il bilancio delle vittime (per lo più straniere) come la reazione internazionale all’attacco sollevano, infatti, alcune questioni.
A chi appartiene, in definitiva, la città? La mia città è ancora solo casa mia? E recuperare la città implica prepararsi a svenderla? E reclamare la sicurezza dello spazio pubblico vuol dire proteggerne i cittadini o, piuttosto, mettere in sicurezza il maggior asset commerciale di una città ossia la sua appetibilità sul mercato globale?
Questioni già presenti nel dibattito ma delle quali il furgone assassino della Rambla amplifica visibilità ed urgenza. Su questo dobbiamo lavorare per costruire la città del futuro, la città della convivenza (che poi è l’unica che esiste). Probabilmente, ancora una volta sarà molto utile guardare a Barcellona.
Alessandro Scarnato vive dal 2005 a Barcellona, dove insegna Storia dell’Architettura ed è consulente esterno per le politiche municipali in materia di turismo e patrimonio. Ha vinto il concorso per Piazza Mercatale (Prato) nel 2002, ha progettato la sede IED di Barcellona nel 2009 e nel 2017 ha vinto il premio “Città di Barcellona” per il libro “Barcelona Supermodelo”.