Dopo la spaventosa abbuffata di megaconcerti dello scorso mese, dove Firenze appariva trasformata in un Coachella 0.5, ci presentiamo stavolta all’ingresso del Visarno Arena per un evento di dimensioni normali, con un pubblico tendenzialmente normale ma con una band che normale normale proprio non è. Lo spiegheremo comunque dopo, senza entrare in dettagli tecnici
e specialistici, che di recensioni fatte dagli addetti ai lavori già tante ce ne sono.
Viabilità regolare e comoda, il cronometro ci mette fretta e ci presentiamo ai cancelli con poco scarto di tempo, giusto quello che ci permette di ritirare i biglietti, distribuiti nelle classiche due file ovviamente sbilanciate “A-L” e “M-Z” (sì, come succedeva alle primarie del PD, sì), più la classica e nutrita coda dell’accredito.
I tanto odiati token ci sono ancora, ma poco male, che facilitano la vita di tutti. Basta solo farsi due conti prima: del resto il pubblico rispetto a “Firenze Rocks” è percentualmente simile al numero di votanti della Lega Nord vs. Forza Italia in provincia di Lecce.
Aspettative ce ne sono tante, per divertimento e curiosità. Puntali con il classico ritardo da artista di mezz’ora circa arrivano sul palco loro, gli Arcade Fire, la band canadese per eccellenza (dei Nickelback non abbiamo più notizie).
Per iniziare attaccano un bel coro (che non si sbaglia mai), a metà fra un gospel e l’inno della Sampdoria con il quale fanno subito capire il taglio della serata: pop, ritornelli, cassa in quarti e piatti in levare. La combo della band in realtà è una cosa che forse ricordo di avere visto al Circo Medrano da piccolo. Sono canadesi, e non ce ne voglia Neil Young, qualcosa di strano c’è. Sono singolari, particolari, nessuno ha i capelli corti. Il cantante ha una zazzera con shampoo remoto da fare invidia a Shel Shapiro nel 1969 e divide il palco con una specie di Stevie Wonder alle percussioni, con il rosso Johnny de “I Ragazzi del muretto”, con sua moglie ovvero la controfigura di Sigourney Weaver in Alien e con mezza nazionale svedese di freccette. Sono sette musicisti su un palco, non eravamo abituati, che a Roma gli U2 erano quasi la metà.
Parte il singolo subito, ovviamente “Everything Now” e i rumors che girano fra il pubblico sono unanimi: gli Arcade Fire sono i Gogol Bordello ripuliti e prodotti dai Ricchi e Poveri in
concorso con gli Abba. Scherzi a parte, il prodotto che offrono durante la serata è un “pop millennial” dove giocare il tiro e giocare con gli strumenti, scambiarseli, è essenziale alla riuscita dello show.
Gli Arcade Fire piacciono perché sono imperfetti, e suona un po’ strano quando affrontano brani della loro storia da Neon Bible, il disco della loro consacrazione. Il lavoro diventa subito quasi serioso, anziché disincantato e falso scalcinato come negli altri pezzi. Passano i minuti e le canzoni, il pubblico si diverte, anche perché osserva le scarpe rosse numero 54 del cantante. Qualcuno lamenta un po’ di freddezza da parte loro rispetto ai precedenti tour, ed effettivamente notiamo in una fase centrale del concerto un atteggiamento esecutivo che ricorda la verve di un impiegato del catasto della provincia di Imperia. Ma poco male, il finale funziona, loro funzionano, perché hanno capito qualcosa di importante. Hanno capito che la musica è essenzialmente intrattenimento. Può essere qualcosa di più elevato, ma nasce come intrattenimento. E loro hanno tutti gli ingredienti studiati per intrattenere bene, come già detto.
Hanno la cassa dritta ed un perenne piatto in levare, hanno l’imperfezione che li rende “simpatici”, hanno i cori (i quattro ragazzi di Dublino qualcosa hanno seminato), hanno un banchino magico sul palco a sinistra che smarmella basi e libera i sette per giocare con il pubblico e con loro stessi.
Gli Arcade Fire sono il divertimento musicale del pubblico intelligente, e non è poco. Gli Arcade Fire sono un estrattore dove si mettono dentro 30 anni di pop ed esce un ottimo succo condensato. Gli Arcade Fire sono il “millenial pop” di chi troppo poco spesso ascolta pop: sono questi improbabili personaggi a garantirci che insomma, per divertirci basta poco. E dobbiamo divertirci.