Sono ormai 9 mesi che vivo a Berlino. Un periodo giusto per fare alcune riflessioni sul mio essere emigrato: né troppo poco, da sentirsi ancora turista, nè così eccessivo, da essere ormai integrato.
Sono partito per la Germania senza conoscere il tedesco e con una conoscenza dell’inglese abbastanza limitata, ma avevo già un lavoro che mi aspettava e una casa trovata con un po’ di fortuna. Ho dovuto fare tutte le pratiche burocratiche arrangiandomi con il mio inglese e col vocabolarietto di tedesco, compilare lunghi formulari e firmare contratti che neanche volendo avrei potuto capire.
L’unica cosa che puoi fare è sperare nella bontà d’animo delle persone che incontri, che sia la donna dello sportello che con un sorriso ti risponde che un po’ di inglese lo sa o i tuoi colleghi che non vedono l’ora di darti una mano o fare un telefonata per te. Ma, purtroppo, non hai sempre un interprete al tuo fianco e ci sono cose, a volte le più stupide, che sembrano ostacoli enormi da superare, come fare la spesa senza sapere cosa siano le cose sugli scaffali e senza trovare la passata di pomodoro o come andare dal barbiere e tentare di spiegargli come vorresti i capelli.
Certo, alla fine ti ripeti sempre che stai vivendo un’avventura, che questa avventura per qualche ragione l’hai scelta e allora compri la latta di zuppa già pronta per provarla o ti affidi al buonsenso del barbiere. Spesso il risultato è sorprendente e ti rende felice aver sperimentato qualcosa di nuovo, come quando scoprii che il supermercato turco ha del cibo molto molto più buono di quello tedesco, anche se vendono prodotti culinari mai sentiti nominare. Ci sono volte, però, in cui anche andare al cinema e non riuscire a capire niente di quel maledetto film in lingua originale inglese con sottotitoli in tedesco ti butta veramente giù.
Non sai bene perché. Sai solo che vorresti tanto tornare nella tua città, nel cinema in cui sei cresciuto, sdraiarti sulla poltrona e lasciarti emozionare dal film, come hai sempre fatto, com’è sempre stato, invece che sforzarti per due ore di capire almeno qualche frase.
Ci si sente soli. E’ questa la verità. Sempre un pesce fuor d’acqua. Ti mancano i punti di appoggio, gli amici che possono capire quello che stai vivendo. Ti manca la confidenza che avevi con loro e l’intesa che ti permetteva di usare tre parole per spiegarti, invece che quei mille giri di parole che devi sempre fare in quella lingua anglofona che mai, mai, mai sentirai appartenerti veramente. E’ un filtro, un filtro scuro che contamina la comunicazione, invece di drenarla.
E tu sei sempre stata una persona socievole, che non ha mai fatto fatica a fare nuove amicizie, a mettersi in gioco e allora ti chiedi perché, perché ti sembra così difficile farle qui, in una delle città più vive e giovani d’Europa. E la risposta è che per tutto ci vuole del tempo. Ma tu non ne hai, diviso come sei fra il lavoro e quella dead-line di 3 anni che a volte ti fa chiedere perché dovresti investire energie per ambientarti, quando all’orizzonte vedi il rientro a casa.
Così, le persone che senti più vicine sono quelle che vengono dalla tua stessa patria, anche se magari sono diversissime da te e magari non ci avresti mai fatto amicizia nella tua città. La fortuna però aiuta sempre gli audaci e ti mette sulla strada delle persone meravigliose con cui condividere il percorso di solitudine che è inevitabile provare e poterle condividere è già un sollievo, perché capisci che non sei tu ad essere sbagliato ma che è totalmente naturale sentirsi soli, lontani da casa, in mezzo a 3 milioni e mezzo di persone.
E smetti anche di sorprenderti che non solo gli stranieri si sentono soli, ma anche gli stessi tedeschi, lontani 6 ore di treno da casa loro.
Quando mi sento emigrato/immigrato il mio pensiero si ricollega sempre alla mia città e a tutti gli immigrati che accoglie e diventa così facile capirne le loro sofferenze, i loro problemi e comprendere cosa vivono. E ti sembra naturale che i cinesi facciano le Chinatown o i turchi occupino 2 interi quartieri, perché hai bisogno di sentirti parte di qualcosa, di una comunità, anche se magari in quella comunità non conosci nessuno.
Ti sembra naturale ritrovarti ad apprezzare di più un barbiere libanese che non uno tedesco, per il solo fatto di sentirsi meno straniero o forse straniero ma in compagnia di un altro straniero.
Ti senti in colpa ma in buona fede quando violi alcune regole o leggi, solo perché non le conosci, come quando ti ritrovi a buttare i tuoi rifiuti nel cassonetto di un altro, perché credevi che, come nel tuo Paese, i cassonetti siano condivisi e non privati (e magari ti becchi pure una bella partaccia dal proprietario dei cassonetti) oppure ti senti ridicolo quando pensi di rispettare leggi che non ci sono, come lo stare chiusi in casa quando sei malato in attesa della visita fiscale quando qui visite fiscali non ce n’è.
Ti senti ferito nell’orgoglio quando scherzano sulla tua Patria, anche se è la prima responsabile della tua partenza e a volte è proprio difficile difenderla, anche se quello che ti ferisce è sapere che stanno scherzando sulla stessa Patria dei tuoi amici e familiari che sono ancora lì.
E anche se alla fine conosci più tu della città di quelli che ci son nati, perché tu la volevi conoscere ed esplorare e sentirti un po’ più parte di questa, alla fine ti senti sempre un turista.
Ma tu ci provi, per il senso di avventura e perché sai che non vuoi sentirti straniero per sempre. Allora esci di casa, conosci i posti che ci sono intorno, approfitti degli inviti dei colleghi e sfrutti ogni occasione per uscire con gli autoctoni per poi renderti conto che è proprio in quei momenti che ti senti più solo. Sei ad una festa di compleanno, tutti festeggiano e anche tu hai il tuo bicchiere di Bowle (sorta di sangria con vino bianco e spumante, ndr) in mano e cerchi di scambiare qualche parola con chi hai intorno ma presto realizzi che sei l’unico che non parla tedesco e che inserirsi nelle conversazioni collettive è praticamente impossibile e, ad un certo punto, a te sembra anche di disturbare, col tuo inglese che obbliga tutti a cambiare registro linguistico, solo per poter comunicare con te.
Ci ho pensato tante volte: che lingua parlerei io con gli amici di sempre se venisse un mio amico straniero a prendere una birra? Come fai a tradurre in inglese quei giochi linguistici o quelle espressioni gergali (“Peso! A palla! Spacca di brutto! Bischero. Grullo. Bada lì che roba!”) che tanto rendono l’idea nella tua lingua ma non quando le riporti in una straniera. La lingua. La lingua è la prima cosa che ti fa sentire straniero. Anche perché, se c’è chi non parla inglese, sai che non è per colpa sua che non ti capisci, ma per colpa tua. E quanti, in Italia sanno parlare inglese? O quanti, a Prato, hanno la pazienza di imparare il cinese?
Quando mi sento emigrato/immigrato, sono veramente grato a chi ha capito quanto l’integrazione passi dall’apprendimento della lingua e quanto dalla pazienza e disponibilità degli interlocutori del luogo. Perché è davvero così: il primo passo per l’integrazione è far sì che il Paese in cui sei arrivato non ti faccia sentire straniero.
Altrimenti, non ti sentirai mai parte di un qualcosa e finisci per rifugiarti con altri stranieri, che sono quelli che stanno vivendo le tue stesse difficoltà e che possono capirti meglio della gente del luogo, ma così facendo ci si finisce per ghettizzarsi e a quel punto come rientrare di nuovo nella comunità locale?
Io ho un lavoro che mi porta a interagire necessariamente con colleghi tedeschi e stranieri, ma non mi riesce difficile immaginare come chi il lavoro l’abbia perso o chi lavori soltanto con gente del proprio Paese poi finisca per emarginarsi ancora di più. Credete che qui non ci siano italiani che lavorano con italiani e che non hanno mai imparato una parola di tedesco? Bè, vi sbagliate: ce ne sono eccome.
Il paradosso alla fine è che finisci per ringraziare il giorno in cui hai deciso di partire e di dare il via a tutte queste sofferenze (e gioie, ovviamente), perché altrimenti non avresti mai capito come ci si sente quando si arriva in una terra straniera, senza conoscere la lingua, con la sola speranza di lavorare, di crescere, di mettere qualche soldo da parte, affidandosi alla bontà delle persone che incontri per strada e a poco altro, per poi, magari, un giorno, tornare a casa e ritrovare la tua famiglia e i tuoi amici di sempre.
Questa è la solitudine e la speranza dell’emigrato e credo che l’unica cosa che fa di me un emigrato diverso da quelli che arrivano in Italia è solo che io non sono dovuto scappare da una guerra o da una condizione di miseria, anche se son dovuto partire per lavorare, come molti di quelli che arrivano in Italia, a Prato, sognano di fare.