Arianna Sanesi è una fotografa, da sempre. È nata 39 anni fa e guarda il mondo dall’obiettivo da più di venti, eppure – in un mondo dove chiunque possieda una macchina fotografica si sente capace di scattare – resta alquanto titubante nel definirsi un’artista.
La fotografia per lei è “vita” e questo – come ammette ogni volta – non sempre è una benedizione. Nata e cresciuta a Prato – dove si è diplomata al Copernico prima di iscriversi alla Facoltà di Scienze della Comunicazione a Firenze – a 23 anni è partita: prima a Bologna, per poco, e poi a Milano, dove ha vissuto 14 anni. Adesso vive a Parigi, una città che sente familiare pur no amandola. Di Prato ha un ricordo nitido però, che spolvera ogni volta che viene a trovare i suoi. La cosa che più ama fare quando torna? Lunghe camminate. Ma se le chiediamo cosa pensi di Prato oggi risponde: “Non ho elementi per giudicare. Manco da troppo. Non posso permettermi”.
Dopo questi lunghi anni di scuole, corsi, masterclass, mostre, concorsi, premi, Arianna di una sola cosa è certa: ha un bisogno estremo di viaggiare e raccontare storie che spingano a riflettere, a condividere punti di vista e competenze in una società competitiva e individualista.
L’ultima di queste sue storie adesso in mostra in Francia è tutta italiana e non parla di cose buone: I Would Like You to See Me è un viaggio su e già nel Bel Paese per raccontare il femicidio, donne uccise per mano amica. Fidanzati, mariti, ex, amanti, padri, fratelli che hanno ammazzato la sorella, la figlia, l’amante, la ex, la moglie e la fidanzata in un lento stillicidio che negli ultimi anni sta toccando cifre da paese in guerra. Basti pensare che negli ultimi sei mesi sono 74 le donne morte ammazzate, una media di 12 donne al mese che si conferma di anno in anno.
“La profonda necessità di raccontare questo dramma italiano mi è salita impellente dopo una puntata di Presa Diretta – racconta Arianna -. Sentivo rabbia, tanta, ma anche molta frustrazione. Fu un cazzotto diretto in pancia. E poi, tutta quell’iconografia banalizzata con cui si cercava di comunicare la tragedia mi suonava insopportabile. E come donna ho pensato di non avere scelta: dovevo raccontare e sentivo di dovermi rivolgere all’Europa, affinché capisca e ci capisca. Un tentativo estremo di rompere cliché, primo passo per costruire una vera identità comunitaria”. Un’idea che è diventata progetto quanto Sanesi ha ricevuto il finanziamento da un paesino della Francia, Baie de Saint-Brieuc, che ospita ogni anno un affermato festival internazionale di fotogiornalismo.
“E’ grazie a loro se ho avuto la possibilità di costruire il mio lavoro – spiega -. E’ stato un viaggio molto difficile. Come raccontare persone che non ci sono più? E poi, la cosa più difficile è stato chiedere e ricevere l’assenso dei familiari a quella che, anche se in punta di piedi, è un’invasione di un dolore estremo. Qualcuno non ha risposto e molti altri hanno declinato all’ultimo. Come non capirli? Come poter replicare o insistere. Sono entrata soltanto dove mi è stato aperto la porta senza indugio. E ho assorbito, guardato, fotografato, ascoltato”.
Il reportage in cinque parti. Da questi incontri è nata la prima parte del lavoro: foto di “ciò che è rimasto di loro”. “Alcune storie a cui non ho avuto un accesso diretto – aggiunge – le ho raccontate attraverso gli oggetti che più le rappresentavano. Mi viene in mente il castello di bicchieri di carta che ho fotografato per narrare la storia di Rosa, strangolata dal marito che tentò di nascondere il suo crimine dicendo che la moglie si era rimasta soffocata bevendo un bicchiere d’acqua. Ecco, Rosa diceva sempre di avere in casa soltanto stoviglie di carta, perché lui spaccava tutto ogni volta che era in collera”.
Il terzo capitolo della mostra contiene scatti di frase d’amore scritte qua e là sui muri o per strada. “In Italia l’amore è spesso confuso col possesso ed è un caos al limite del tollerabile. Basta leggere quanto viene disseminato ovunque. Pensieri frutto della totale mancanza di educazione sentimentale”, precisa. Quindi la quarta parte del suo studio, ossia la ricerca iconografica della Donna e dell’Amore, e infine la quinta e ultima: i notturni delle finestre accese, immagini che dovrebbero indicare il calore del focolare domestico, ma che troppo spesso identifica la culla della violenza più infima e vigliacca.
Adesso e fino al primo novembre, I Would Like You To See Me è in mostra, appunto, al Festival international Photoreporter di Baie de Saint-Brieuc, nato per ridare dignità e possibilità al fotogiornalismo, forma d’arte messa in serio pericolo dalla crisi. E alla domanda se mai questo suo lavoro potrà arrivare in Italia – magari proprio a Prato – Arianna tituba: “Difficile da dire. Prima di decidere dovrei prima avere il permesso di ogni singola famiglia di cui racconto il dramma. Ma anche in questo caso, non so, è nata per essere narrata al resto d’Europa e non so se questo paese sia ancora pronto a guardarsi allo specchio così. Non so se possa essere fattibile. Ma mai dire mai”. Noi, però, ci speriamo.