In Italia il primo settembre è il lunedì dell’anno, un giorno in cui, diciamolo, chi è ancora in ferie è una sorta di infame. Nella Prato della prima repubblica di festivo non c’era neanche la domenica, ma adesso, addirittura, lo stridere delle saracinesche che riaprono per la prima volta dopo l’estate è subito fragorosamente soffocato dalla musica e le voci della manifestazione cittadina per eccellenza, che quest’anno va sotto il nome di ‘Settembre, Prato È Spettacolo‘. Il nome utilizzato fino all’anno scorso è stato infatti legalmente sequestrato, giusto per capire quante polemiche inutili girano intorno a questo evento. D’altronde dove c’è polemica c’è vita, proprio come quella che pervade abitualmente le vie del centro di una città che ha scoperto una nuova vocazione al grido di “levateci pure il lavoro, vogliamo divertirci come Dan Bilzerian su Instagram con i soldi del Monopoli”.
Per lo show inaugurale, la nuova direzione artistica ha scelto di esagerare, portando in città uno dei grandi nomi della musica indie a livello mondiale (pur non nel momento top della carriera), mettendo di fatto tutti d’accordo, considerato anche che molti avranno pensato che stesse arrivando in zona Serraglio la polizia internazionale, appunto, l’Interpol.
I membri della band newyorkese non hanno certo tatuato ACAB sulle nocche, ma sicuramente non hanno neppure niente a che fare con l’ordine pubblico, anzi mi aspetto e mi auguro un bel po’ di confusione in Piazza Duomo, dove già domina un maestoso palco come mai se ne erano visti in città: nero, con le finalmente degne grafiche del ‘Settembre’ a vista, che spaventa il Mazzoni lì accanto, rassegnato per una volta al subordine, ma anche alla sistemazione privilegiata nel backstage.
Prato non è abituata ad ospitare live rock di così alto livello internazionale; per me l’atmosfera del concerto si costruisce di solito durante intere giornate di attesa, fatte di viaggi in macchina o in treno, di panini dell’Autogrill, birre calde e notti all’addiaccio, quindi mi fa strano scendere comodamente in strada dopo cena ed incamminarmi al concerto.
Escluso il bagarino dilettante che vorrebbe spacciarmi un biglietto all’ingresso, la situazione alle casse è tranquilla anche perché è piuttosto presto per potersi aspettare la ressa.
Sta suonando una band di supporto della quale nessuno era stato avvertito, infatti si sentono più voci chiedere informazioni in merito, finché qualcuno chiede a me. “Boh”, rispondo, poi scopro da uno striscione sollevato da qualcuno del pubblico che si tratta dei Piqued Jacks, una funk-rock alternative band che non incontra i miei gusti personali (uniformi indossate comprese), ma ben armata della gran voce del cantante, che ricorda a tratti quella dei Coheed And Cambria. Sono un gruppo nato in provincia di Pistoia che è riuscito a sbarcare negli Stati Uniti, cosa che non smettono di ripetere con orgoglio. Ci fanno sapere che sono amici fin dall’asilo e ringraziano le famiglie: per favore ragazzi, non è un raduno boy scout.
Nell’attesa degli Interpol la piazza si riempie, anche se non proprio completamente, e noto con piacere che numerose persone venute da fuori città stanno apprezzando l’organizzazione e le bellezze che la piazza offre, mentre si stanno rullando dei joint.
Ci siamo, sono le dieci, gli Interpol si palesano sul palco vestiti di tutto punto per un colloquio di lavoro. Non mi fido mai delle persone vestite bene, ma l’avvio del concerto con ‘Say Hallo To The Angels’ mi fa mettere da parte i dubbi su questa band, che anche se non è certo fra le mie preferite, offre new wave di qualità a palate. La piazza si scalda immediatamente, Paul Banks risponde con un “Grazzy Milly!” e quando il bassista attacca ‘Evil’ capisco che la serata, fra urla e applausi, è riuscita davvero. Gli Interpol sono raffinati ed eleganti, il loro pubblico di young adult vestiti senza eccessi rispecchia un genere che vuol essere intelligente ed energico, senza spingersi agli estremi. L’indie rock è come un film drammatico, un farmaco generico, la Balena Bianca della musica, che però espresso a questi livelli sta creando un’atmosfera intensa e sta davvero facendo sudare i presenti.
La scaletta include singoli dei primi anni fino naturalmente a quelli dell’ultimo album, mischiati sapientemente per creare climax discendenti ed ascendenti in quanto a potenza nei diversi momenti dello show, contentando tutte le persone in piazza, che tra l’altro hanno sborsato trenta euro (compresa evidentemente questa filippina con le ciabatte accanto a me), a fronte dei soli quindici euro pagati ieri a Torino.
Buono il suono, bellissime le luci, oscurate spesso dagli immancabili smartphone 48 pollici elevati al cielo. Capisco la foto ricordo, ma davvero vi piace vivere un concerto dovendolo filmare per intero? Sappiate che nel retto possono entrare un sacco di cose.
Il live termina dopo un’ora e venti con ‘Stella Was A Diver And She Was Always Down’, lasciandoci orfani della stupenda voce di Banks, ma solo all’inizio del ‘Settembre’, che sembra essere inizato decisamente col piede giusto.
Piazza Duomo è adesso sporca di bicchieri vuoti lasciati in terra, eppure questa è la sporcizia che ci piace.