“Ho fatto questa performance in tutta Europa, solo in Italia sono stato contestato”. Sono le parole di Frank Willens, ballerino americano che nei giorni scorsi ha destato scandalo nel nostro Paese (e da qualche giorno anche a Prato) per la sua performance “Untitled” 2000 al festival di Santarcangelo di Romagna.
“Untitled 2000” è un’opera di Tino Sehgal, nato a Londra, ma cresciuto a Berlino, per gli amanti di arte contemporanea un artista fra i più noti ed apprezzati del mondo, con mostre alla Biennale di Venezia arti visive, Leone d’oro come miglior artista nel 2013, Documenta Kassel e Guggenheim di New York, ICA e Tate Modern di Londra.
Il caso. Durante la performance – che si svolge all’interno di una piazza pubblica – dopo aver eseguito una coreografia completamente nudo, il ballerino si trasforma in “fontana” e fa sgorgare uno schizzo di pipì – immagine tratta da “La fontain” di Marcel Duchamp, “un gesto fortemente coreografato, inserito all’interno di un contesto artistico specifico e dichiarato come tale”. La coreografia è già stata rappresentata nei più importanti festival d’arte contemporanea mondiali.
Da parte della stampa e di alcuni politici arriva allora lo scandalo e le parole di indignazione, montando un caso nazionale. Il performer sarà ospite anche del festival di Contemporanea 2015, organizzato dal Teatro Metastasio. “Untitled 2000” andrà in scena al Bastione delle Forche.
La lettera
Dopo i giorni di scandalo – che stanno arrivando anche in città – arriva la lettera della direttrice artistica di Santarcangelo Silvia Bottiroli. Vi alleghiamo alcuni estratti, per comprendere a pieno il senso della performance e per capire “di cosa stiamo parlando”.
“Si è scritto che “un uomo si piscia in bocca in piazza”, e questa frase è rimbalzata in molti discorsi e in troppe pagine dei social, sino ad arrivare addirittura ai media, là dove alcuni giornalisti non si sono preoccupati di verificare la verità di una “notizia”. Sarebbe bene, in particolare quando si tratta di arte, che si fosse visto ciò di cui si parla, e che si parli alla luce di un’esperienza, una testimonianza, non di un sentito dire o di una fotografia che può, come sappiamo, essere ingannevole.
Questa scena semplicemente non esiste nel lavoro di Tino Sehgal, e nella performance di Frank Willens oggetto delle polemiche. Esiste un assolo di un danzatore che danza, esegue una serie di coreografie peraltro molto “classiche”, in una performance di grande sapienza e armonia. È un nudo che non si impone, che semplicemente è, fuori da ogni narcisismo: puro corpo che si lascia attraversare dalla storia (della danza) del Novecento, e che nella performance all’aperto lo fa con una generosità, rispetto alle condizioni fisiche e all’incontro con gli spettatori, commovente. Un corpo nudo perché fuori dal tempo, spogliato di ogni riferimento iconografico a un’epoca, corpo disponibile quindi a un attraversamento storico che in poco meno di un’ora ci permette un viaggio vertiginoso lungo un intero secolo. L’ultima scena dello spettacolo – che è interamente composto da una serie di citazioni di linguaggi e scene della danza del XX secolo, da Vaslav Nijinsky a Xavier Le Roy, da Isadora Duncan a Pina Bausch, Yvonne Rainer, Trisha Brown e Merce Cunningham, per non fare che alcuni nomi – vede il danzatore portare le mani al sesso, quasi a nasconderlo pudicamente, lasciar uscire un getto di pipì e pronunciare la frase “Je suis Fontaine”. Si è scritto e detto che è un’arte “che non si capisce”, e probabilmente è vero che per comprendere fino in fondo il senso di questa scena è utile avere qualche riferimento artistico: l’immagine è una citazione dello spettacolo Jerôme Bel del coreografo francese Jerôme Bel, di cui già la scelta del titolo fa intuire l’approccio disincantato e dissacrante alla tradizione “alta” della danza, e il rivolgersi a quella che giustamente è stata definita dagli anni Novanta (lo spettacolo in questione è del 1995), come una “non-danza”, basata soprattutto su gesti e movimenti ordinari e sostenuta da una solida impalcatura concettuale. A sua volta Bel – e con lui Sehgal – cita la celeberrima scultura Fountain di Marcel Duchamp, uno dei maestri dell’avanguardia artistica di inizio Novecento. C’è tra Duchamp e Bel/Sehgal la storia di un secolo appunto (come annunciato dal danzatore di (untitled) (2000) all’inizio della rappresentazione, quando dice che si tratta di “20 minuti per il XX secolo”), e insieme c’è il passaggio dall’arte visiva, che porta in scena perlopiù degli oggetti, e in questo caso un “readymade”, alla danza come arte del puro movimento senza oggetto. Un tema, questo, su cui Sehgal sta continuando a lavorare anche nei maggiori circuiti dell’arte contemporanea, e un tema che per la danza e il teatro non è affatto nuovo, al contrario.
Chi ha assistito alla performance sabato o domenica, nello spazio pubblico o al chiuso (è stato poco ricordato che la performance consisteva di due parti, identiche ma danzate da due interpreti diversi, la seconda delle quali affidata a Boris Charmatz all’interno del Lavatoio), ha anche visto come tutto lo spettacolo sia una partitura coreografica raffinatissima, eseguita da un danzatore di grande preparazione tecnica e capacità esecutiva, e come il suo corpo si porti nello spazio pubblico della scena con grazia, con sottile ironia, con pudore (non dimenticheremo il sorriso di Willens in alcuni momenti del pezzo, così come non dimenticheremo la sua schiena percorsa da un sudore nero d’asfalto).
Non regge, di fronte a questo spettacolo, l’argomento del “lo potevo fare anch’io”, e domenica è stato evidente anche a chi ha voluto assistere alla performance solo per riconoscervi ciò che sapeva già di voler vedere: uno scandalo, un gesto di mancanza di rispetto, di “pornografia” o addirittura “pedopornografia”, come è stato scritto; il segno inequivocabile della “decadenza” dell’arte performativa contemporanea e del festival di Santarcangelo.
Stiamo discutendo di questioni serie, e occorre che facciamo attenzione alle parole, che sono importanti, e che ci confrontiamo con onestà. L’interpretazione soggettiva che possiamo dare a un’opera d’arte varia naturalmente per ognuno di noi, ed è innegabile il diritto di ciascuno a rivendicare il proprio punto di vista, ma le discussioni di questi giorni hanno volutamente falsato una realtà e si stanno appoggiando su una scena che non esiste (quella dell’“uomo che si piscia in bocca” appunto) e in generale su di un’attitudine, una presenza, un’intenzione, che non sono, inequivocabilmente non sono, quelle a cui abbiamo assistito.
Chi, infine, ha paragonato questo gesto a quello di un qualsiasi cittadino che decida di orinare in un luogo pubblico, ha evidentemente fatto finta di non vedere non solo il gesto del danzatore – che ha orinato sì, ma come ultimo gesto di una sequenza coreografica, in una citazione di un’altra, anzi di due altre opere, e nella posa infantile, pudica e gioiosa del bambino che gioca, appunto, a farsi fontana – ma anche la presenza, attorno a questa rappresentazione, di un festival
(…)
Mi è chiaro, come credo lo sia a tutti, che da giorni non si sta più parlando di Tino Sehgal, della performance di Frank Willens, della differenza tra un teatro e uno spazio pubblico, di quale limite sia giusto, eventualmente, dare all’opera d’arte. Si sta parlando, anzi urlando, di politica, e nel modo più svilente per una delle parole fondamentali del nostro vocabolario. Si sta strumentalizzando un fatto (o meglio ancora la lettura e la presunta notizia di un fatto, che come si è visto non corrisponde neanche a verità) per attaccare un festival e le amministrazioni pubbliche che quel festival sostengono, arrivando a suggerire l’illegittimità del finanziamento pubblico per una manifestazione artistica che possa presentare contenuti che suscitano scalpore. Si sta riducendo uno spettacolo importante a un futile gesto di provocazione, e uno dei maggiori festival europei di teatro contemporaneo a una manifestazione di teatro di strada tenuta solo a intrattenere il pubblico e a portare economie per le attività commerciali della città.
La politica dovrà prendere la parola a un livello più alto, e spero che voglia farlo, per difendere l’operato di un festival che si vede ora ridotto a una sola immagine, quando per dieci giorni ha portato in scena voci importanti di artisti di tutto il mondo, sollevato questioni serie, costruito un contesto in cui una città potesse farsi teatro e in cui abitanti, artisti, studenti, professionisti e spettatori potessero ritrovarsi insieme, e insieme emozionarsi e pensare.
E spero vorrà prendere la parola anche il mondo artistico e culturale, affinché attorno a questo “caso” si possa aprire un vero dibattito, in cui posizioni diverse possano essere articolate e in cui possa sentirsi anche la voce di chi quello spettacolo lo ha visto e apprezzato, e soprattutto di chi, al di là del caso specifico che stiamo discutendo, condivide certi principi e certe inquietudini rispetto all’arte, a ciò che può fare, al suo statuto, al suo rapporto con la realtà”.