C’è un filo resistente al tempo e al frutto della civilizzazione di ognuno di noi che lega lo sfondo culturale nel quale veniamo allevati in culla e le nostre convinzioni da adulti.
Nel caso di chi scrive il 1987 oltre a segnare la fine dei governi di Bettino Craxi e con loro una pausa alla mitizzazione del leader pugnace portava con sé – al netto della vecchia faglia Usa-Urss- due grandi guerre culturali: quella all’inflazione e quella contro la droga. Ed erano talmente coeve che il leader più rappresentativo degli italiani al tempo, il segretario del Psi decise di brandire il garofano e farsi araldo di entrambi i conflitti. Poco importava che buona parte dell’assemblea nazionale dei socialisti – l’organismo politico voluto da Craxi per rimpiazzare l’algido comitato centrale-, composta da showman/woman, imprenditori, stilisti e altre persone dello star system fossero troppo inserite negli eccessi della vita notturna milanese e romana per avere un cattivo rapporto con le sostanze stupefacenti, specie con la cocaina.
Oggi, a Prato come in molte altre parti d’Italia (è notizia di mercoledì del nuovo boom di overdosi nell’area fiorentina) le stazioni e i giardini restituiscono siringhe e dosi giornaliere di eroina. Sono passati 28 anni da quando Craxi dedicò una parte significativa della sua campagna elettorale a promettere di arrestare fino all’ultimo spacciatore, realizzando specificamente degli spot sul tema della lotta alla droga. E molti altri dopo di lui si mossero nel solco di ammonire, chiedere o concedere mezzi e uomini per rinforzare l’azione delle forze dell’ordine su strada, insieme a nuove leggi speciali per sanzionare consumo e spaccio.
Trascorsi questi 28 anni, malgrado le leggi Gozzini-Iervolino e Fini abbiano puntato sull’escalation della punizione e la Corte Costituzionale abbia tolto via qualche picco di irragionevolezza, almeno sulle droghe leggere, dobbiamo sanzionare che la guerra contro la droga sta per concludersi con la capitolazione. Con un esito opposto, quindi, a quello della battaglia alla rincorsa dei prezzi. Curioso, certo. Ma non troppo.
Voglio tenere insieme i due argomenti ancora per un po’, perché entrambi sono tributari al vento da Nord-Ovest che spirava da Washington e da Chicago. Sì, il concepimento delle due guerre culturali in gran parte non lo dobbiamo al nostro genius loci, ma a Richard Nixon e a Milton Friedman. Nel 1971 il repubblicano dalla Casa Bianca sferrò ufficialmente la guerra proibizionista più cognitivamente impegnativa per la politica di fine Novecento, mentre uno dei suoi consulenti, l’occhialuto e canuto Friedman, lavorava alle incendiarie teorie neo-monetariste che avrebbero rovesciato decenni di fasti e, talvolta, di guasti keynesiani e spinto le banche centrali a tagliare le unghie allo stampaggio di banconote, vero responsabile dell’inflazione galoppante.
Friedman, in realtà, come molti altri capostipiti della Chicago Boys si accorse anche che se per un verso tanto giusto era calare l’elmetto contro la spirale dei prezzi aveva un retrogusto di incoscienza gettarsi nella guerra di costume della criminalizzazione del consumo e del commercio delle sostanze. Si interessò sufficientemente all’argomento per osservare anche il primo marchiano caso di eterogenesi dei fini: il voler insegnare ai propri cittadini quale fosse il modo eticamente corretto per stare al mondo, trasformando in fattispecie di reati con la stessa intensità il tiro di canna, la pippata e la pera, non aveva cancellato la droga dall’esistenza dagli americani, ma ne aveva ristretto l’offerta (del resto è proverbiale in microeconomia, se si limita la concorrenza fra i produttori e i venditori, perché magari si incarcerano, la merce diventa cara quanto una pepita d’oro) al punto da doversi inventare, ad esempio, un modo più economico per la working class per estrarre la cocaina: sul finire degli anni ’80 fece la sua prima indesiderata apparizione in Nord-America, il crack.
A distanza di trent’anni, quasi a ricordarci che abbiamo fatto male a fidarci dei neo-monetaristi solo quando in ballo c’era la difesa del nostro denaro dalla voracità della politica, Gary Becker (uno della nidiata dei Milton Friedman, dei George Stigler) ha rotto il silenzio sul Wall Street Journal con queste parole sui fallimenti della Nixon war: “Il primo è che si fa ancora un forte uso degli stupefacenti. La guerra non ne ha in alcun modo eliminato o ridotto il consumo – ha scritto-. Ha inoltre determinato un aumento dei prezzi: chi spaccia e non viene catturato ottiene enormi profitti, motivo che induce gangster e pericolosi criminali a entrare nel business”. Il problema non è solo americano. Anzi, il premio Nobel per l’economia auspica un accordo internazionale “in cui si riconosca che la guerra alla droga è fallita”.
Il clamoroso insuccesso dovrebbe portare ad una revisione delle nostre politiche sulla droga? Probabile. Magari dovremmo seguire l’esempio portoghese, che ha derubricato la rilevanza penale del consumo di ogni sostanza, dalla cannabis all’eroina ad un semplice illecito amministrativo? L’esempio ha offerto risultati strabilianti anche ai più scettici, tanto che la nuova stagione di tolleranza voluta dal centrosinistra nel 1998 ha passato intatta gli anni di governo di Barroso e dei conservatori. Questo, però, non esaurisce il dibattito e non dà conforto al dubbio principale: è stata una guerra giusta? Imbottire le patrie galere di spacciatori e tossicodipendenti ha qualificato il nostro Stato di Diritto o si è spinto in un terreno di Stato etico che avevamo pensato di odiare e di rifiutare in blocco dalla fine della Seconda Guerra Mondiale?
Sono conscio che porsi semplicemente in contraddizione rispetto alla Guerra Santa alla droga esponga all’accusa di farsi manutengoli di qualche tossicodipendente oppure dei non pochi ‘spaccini’ che frequentano Prato, ma non è banale interrogarsi su quali confini di neutralità debba rispettare uno Stato. La versione etica dello statalismo vorrebbe che pochi sapienti legislatori fossero in grado di stabilire il corretto stile di vita di ciascuno di noi. Magari, alternando il lavoro con delle salutari marce militari al passo dell’oca. Una società aperta, invece, riconosce all’individuo anche il diritto di sbagliare se non di procurarsi ogni sostanza, in ogni tempo e in ogni modo senza dover chiedere il permesso all’autorità costituita.
Qualche tempo fa mi è capitato di scorrere un dibattito estremamente rude, ma non per questo meno appassionante sulla scena centrale della trasposizione cinematografica del capolavoro della letteratura nichilista ‘Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino’ (1978): Christiane F., il suo fidanzatino Detlef insieme alla compagnia all’uscita dal Sound Club escono strafatti di eroina e riversano il loro sballo sul pavimento ghiacciato della galleria commerciale dell’Europa Center, scivolando, correndo e cadendo. Detlef trova una cassa piena di monete in bella mostra, sfonda la vetrina e attira l’attenzione dalla polizia, ma insieme al resto della compagnia riesce a fuggire alla galera e al peso della sconfitta. Il sottofondo musicale di Heroes dà il colpo di grazia a chi nel frattempo non fosse riuscito ancora ad emozionarsi.
Di fronte a questa scena un commento di un nostalgico neo-fascista, su tutti, ha catturato la mia attenzione: “Fossero stati ai tempi di Hitler questo non sarebbe mai accaduto. Avrebbero sfilato ordinatamente in una piazza”. Temo che abbia ragione. Ma temo anche che, in una forma estrema, quel frammento di vita dionisiaca dei ragazzi berlinesi contenga lo spartiacque esatto fra l’organizzazione di una società aperta rispetto ad uno Stato etico-totalitario. E di come da una forma di eroismo basata sul sacrificio sul campo di battaglia, sui fiumi di sangue consacrati al trionfo di un solo uomo si è transitati ad una volontà di potenza molto più individuale, da realizzare sentimentalmente e anche con dei momenti di trasgressione, per dirla alla David Bowie “just for one day”.
È altamente evidente che se una società decide di fondarsi su una libertà molto ampia, poi debba anche accettare di aver scaricato sugli individui l’onere della responsabilità.
Altrettanto paradigmatico è che una rappresentazione così illuminante di un’open society provenga non da un saggio di Karl Popper, ma da un film su un gruppo di adolescenti persi nell’abuso e nella dipendenza di droghe pesanti. Segno che quella tigre statale piena di sapienza e di ambizione etica che pensava di bonificare la società dal marcio, anche culturalmente ha prodotto effetti devastanti e opposti all’utopia di un mondo senza stupefacenti. Anzi, ha regalato un’inaspettata consacrazione agli elementi ritenuti mefitici del vivere civile.
Il fatto che a Prato, tra un invito a pacchetti sicurezza che aumentino fino all’ergastolo le pene per gli spacciatori e un richiamo al sindaco pro-tempore a fare di più sull’ordine pubblico (sul quale, è bene ricordarlo, ha una competenza molto residuale), si sia poi passati dalle letture della tragica epopea maudit di uno zoo tedesco alle cronache dei ragazzi della stazione al Serraglio è solo l’episodio che conferma il naufragio generale dell’ideologia proibizionista.
Carlandrea Poli lavora per l’agenzia Dire, tifa Milan e Mourinho, è fan di Sartre e del neomonetarismo.