Francesca è una mamma. Suo figlio le ha chiesto di portarlo a sentire la Brunori Sas in concerto al Teatro Duse a Bologna. Francesca, che ama la musica del cantautore calabrese, ha accettato. E ci racconta la serata – in vista della data pratese venerdì 27 al Politeama Pratese – con un report particolarissimo. La redazione garantisce l’assenza di spoiler nel racconto che segue.
“SEDUTIIII?” chiede.
“TEATRO?”, lo sguardo è un tantino allucinato.
“Ma mi hai detto che è un concerto” dice.
“Perché non capite una mazza?” dico. “Voialtri adolescenti non capite una mazza, ve ne state lì, con i vostri paletti, i vostri limiti, le vostre visioni limitate, o una cosa o un’altra, o giustissimo o ingiustissimo, o fighissimo o schifo totale, o concerto o teatro_” gesticolo.
“Ti sei dimenticata il bianco e il nero” dice. “Il bianco e il nero lo dici sempre” dice. “Dai, qui ci sta alla grande” dice. “O bianco o nero” dice.
Mi sta prendendo per il culo.
“Mi stai prendendo per il culo” dico. Di solito lo fa. Voglio dire, è solito farlo.
“Mi stai prendendo per il culo, figlio” dico.
“È solo che teatro è un po’ da vecchi, madre” dice. “Per un concerto, dico” dice.
Vediamo di non dirglielo a Brunori, sai mai. “Tesoro” chiarisco una volta per tutte, “stiamo andando a vedere Brunori, no Meghan Trainor” chiarisco proprio.
“Sarà” dice lui. “Seduti però è un po’ da, uhm, vecchi” dice.
Mia madre il mio primo concerto forse era una roba di canzoni folk contadine forse era il 1979 forse eran quei festival folk anni settanta forse bruciavano canne forse anche i miei le bruciavano. Forse. Sono figlia di genitori teatranti sessantottini MA nipote della borghesia bancaria che collega in una linea immaginaria Lucera, provincia di Foggia, a Milano. Figlia di due personcine scriteriate che mi portavano ai festival folk, MA non mi mancava mai il cappottino rosa trapuntato di stelle di diamanti quando uscivo dall’asilo in pieno centro di bologna, casa in affitto, bilocale con travi a vista, MA dormivo in sala, i miei fumavano tutti e due in sala prima di farmici dormire, prima di dormire parlavano sempre di progetti pirandelliani, libri stipati ovunque, numeri progressivi di Sipario accatastati negli angoli, MA lavastoviglie ultima generazione, pirandello rivisitato, fumo di MS ovunque, macchina da scrivere di mio padre, mia madre in tournée una settimana sì e l’altra anche.
“Quanti sono?” mi chiede di botto mentre percorriamo i tigli faticosamente primaverili dei viali.
“Mmmh?” dico io, perché ho il torcicollo e anche la tachicardia e sto guidando e ho tutte quelle cose che mi vengono quando sto uscendo la sera e non dovrebbero venirmi soprattutto se guido.
“I concerti, dico” dice. “I concerti che ho visto fino a ora” dice.
“Dai” dico io.
“Siamo al numero sette” dice. “Gli Amari a sei anni al Covo” comincia a ripercorrere. “Sono finito pure su Marie Claire, quella volta” ricorda.
“Cristo santo” ricordo anch’io. “Eravamo a un passo così dal Telefono Azzurro” dico. “E invece no: Marie Claire” dico.
“Due: Offlaga in piazza maggiore” dice.
“Dimentichi Yuppie Flu acustici al chiostro di S. Cristina, quell’estate pazzesca seduti per terra” dico.
“Uh” dice. “Mi ricordo il male al culo della ghiaia” dice.
“Quindi siamo a tre” dico.
“Quattro: Baustelle ma tu non c’eri. Mi han portato Luca e Roi e la Serena” dice. “Avevi un qualche cazzo di problema di pancia” dice.
“Non dire cazzo. Ero incinta di tuo fratello e mi avevano fatto la villocentesi, tipo, quel giorno lì” dico.
“Cinque: Cremonini” dice.
“Daje” dico io.
“Sei: Shout Out Louds a farinculo, provincia di ravenna” dice.
“Non dire farinculo” dico.
Un disadattato musicale, in poche parole.
Finiti i Settanta e i festival folk, ci fu Dalla Morandi, gli Stadio, Luca Carboni, scusate non è colpa mia se sono nata a Bologna.
Mio padre a volte mi portava a volte no. Mia madre mi portava quando mio padre no. Poi, per fortuna, ho inforcato una bici, i miei erano d’accordo, avrò avuto quindici anni, me ne andavo in bici per la città, da sola. Era il turno del walkman nelle orecchie e di De Gregori che live a noialtri non ci faceva riconoscere manco una canzone.
Il fatto che tu, figlio mio oramai quindicenne, non possa parlare ai tuoi compagni dei concerti che andiamo a vedere insieme perché nessun quindicenne SA cosa stai andando a vedere (compreso Cremonini, sì, ricordiamoci tutti il numero IMPRESSIONANTE di cougar al palazzetto e ZERO adolescenti, da Cremonini. Chilometri di cougar che sculettavano ma quant’è bello andare in giro, “E adesso facciam venir giù il Palazzo” gridava Cesare alle cougar tacco dodici, fuori citààààà, Daje Cesare), a me non mi frega un cazzo.
E neanche a te.
Vai a scuola con le magliette improbabili di sti gruppi e cantanti e cantautori, tanto il tempo per condividere i video degli Imagine Dragons con i tuoi amici ce l’hai, non è che Brunori o Bianconi ti impediscono gli Imagine Dragons, voglio dire.
“Ahpperò, Brunori” dice, buttando un occhio sulla platea stracolma. “Guarda un po’ che roba” dice e manda subito un messaggio a sailcazzo su whatsapp. La gente continua ad accumularsi, le maschere del teatro portano sedie non previste, noialtri due siamo in un palchetto tutto nostro, posti regalatici da matteo, “matteo è figo” mi hai detto dopo che matteo ti ha praticamente appoggiato in pieno la questione motorino davanti a me, che sarei tua madre e che non vorrei mai e poi mai vederti sulla sella di qualsiasi cazzo di cosa a due ruote, bici escluse, matteo grazie tante per i posti, ma CAZZO, eh.
“Se ‘un glielo comperi tu, ci va in tre con ‘l amici suoi” mi dice Matteo, l’accento fiorentino che trabocca e glielo infilerei in gola, ora e qui.
“Sì, vabbè, Guido i’ vorrei che tu Lapo e io” dico io. Macché tre, macché tre su un motorino, stiamo scherzando. “Grazie per i biglietti” dico.
“Buon concerto” ci dice poi Matteo, con un sorriso che parte dal cardigan e arriva agli occhi gentili, lo ringraziamo, salgo in galleria, seguita da un figlio che mi piace avere al mio fianco, ridacchiamo, ci perdiamo, poi troviamo i posti, poi vediamo tutto e tutti, da lassù, poi mio figlio commenta cose a caso su whatsapp, poi arriva Brunori. Sul palco, sale Brunori, ciao whatsapp, ciao tutti.
È il 1992. Forse il 1993 o 1991, non ho voglia di googlare. Mio padre dice a mia madre: “Stasera la porto a teatro” e indica me, “TEATROOO?” dico io, “andiamo a vedere un concerto” dice lui, “SEDUTIII?” dico io, “Buona serata” dice mia madre, rassettando la tavola.
Andiamo al Teatro Duse di Bologna, lo stesso, toh, lo stesso che, eheh, sì, proprio lui.
C’è Gaber che fa uno spettacolo.
Mio padre mi ci porta.
All’inizio dello spettacolo, c’è una filastrocca in registrato. Una voce off, la chiamano altrove, in teatro non saprei, nenia infantile, anche un po’ stupida, se vogliamo. E infatti, durante lo spettacolo, sapremo che è davvero così. Stupida.
C’è un monologo di Brunori che fa ridere, poi c’è Brunori che si siede e canta, poi si siede su una sedia bianca, prende la chitarra e canta la CCVI (Canzone Che Volevo Io). Per seconda, cazzo.
“Te l’ha fatta per seconda” mi dice piano nell’orecchio mio figlio.
“Aspettiamo la tua” gli dico nell’orecchio piano io, un po’ in colpa per quella precocità guadagnata per nulla meritata.
Siamo entrambi commossi, in un’intesa perfetta, momentanea per carità, nel sentire la voce asciutta, forte, arriva tutta, arriva tutto, arriva anche la spiegazione della filastrocca, ce ne stiamo lì zitti, io di fianco a lui, mio figlio quindicenne che di solito mi prega di uscire dalla stanza, mi prega di non rompergli le palle, mi prega di non essere asfissiante (“Sei asfissiante mamma”), mi prega di essere più presente (“Dovresti essere più presente, mamma”), mi prega di lasciarlo in pace se gli parlo, mi prega di cagarlo di più se non gli parlo, mi prega un motorino, mi prega il telefonino, mi prega di sparire qui e ora in quanto madre, mi prega di rifargli il letto in quanto madre, mi prega sempre l’opposto di quel che faccio, comunque prega senza segni della croce, prega, il blasfemo. Eecco perché me lo porto dietro ai concerti, penso io. Per questa cosa qui, penso. Qui non mi prega di un cazzo, penso. Me lo porto per questa cosa che basta una voce pazzesca, due accordi suonati da dio, le canzoni che gli ho fatto sentire prima e che lui ha fatto sue in un secondo netto, basta conoscerle e canticchiarle piano, insieme ma da soli, senza farci sentire ma solo perché siamo a inizio concerto (alla fine sbracheremo, sappiatelo), ed eccoci qui, madre figlio, Teatro Duse, Bologna, ventitrè marzo duemilaquindici. Dura poco, penso, ma è una figata, penso. Anche aver fatto figli, penso, è stata una figata.
Gaber ha la patta aperta per TUTTO lo spettacolo.
A me e a mio babbo ci vien da ridere, perché Gaber ci ha addosso questi pantaloni un po’ mosci, lui magrissimo, dinocolato come al solito, e niente, la patta è clamorosamente aperta.
Il che non ci impedisce, ben inteso, di sentire il concerto, seduti. Ogni tanto prendo il braccio a mio papà, ridiamo parecchio, ci fa una serie di pezzi, dall’Odore all’Illogica (tutti con patta aperta), che ci uccide all’istante, lì sulla poltroncina rossa del Duse, poi Gaber si incazza perché gli bruciamo il finale dello Shampoo. Tutto il pubblico, stipato nel Teatro Duse, Bologna, dice fffffon prima di lui. Lui ci manda a cagare.
Alla fine c’è uno degli ultimi pezzi e uno degli ultimi pezzi è quello dove mio padre non si tiene più. Lo vedo piangere, patta o non patta, lo vedo coi lacrimoni, i singulti, cazzo, Sei mio padre!, mi verrebbe da dirgli, piantala, sembri un moccioso di due anni, fai il padre, vorrei urlargli. Ma non gli dico niente. Da brava adolescente faccio finta di niente, se avessi uno smartphone in mano scriverei qualcosa di stronzo su whatsapp al gruppo della classe, ma siamo nel 1993 o 1991, Gaber sta dicendo che qualcuno era comunista nonostante ci fosse il grande partito comunista. E mio padre è un mare di lacrime.
La Canzone Prefe Di Mio Figlio arriva per ultima, prima del bis. In mezzo, un tripudio di pezzi attesi, meno attesi, risatone, buffonate, arrangiamenti nuovi e fighissimi, matrimoni difficili, padri che non ci sono più, canzoni che ci sono sempre, Brunori che canta, Brunori che ride, Brunori che simula corse campestri (vi prego, accontentatevi, mi han proibito di “spoilerare sulla scaletta” capitemi).
Dunque arriva questa CPDMF (Canzone Prefe Di Mio Figlio).
Nel disco sembra quasi buttata lì, cantata con leggerezza, quella forza giusta per far capire che è importante, e bella, e forte, ma niente più di questo, di questo suo ruolo di, uhm, apertura (SPOILER SPOILER ATTENZIONE).
Dal vivo spacca.
Mio figlio ha una predilezione per le canzoni malinconiche. Non lo dicevo un adolescente malinconico. Mi sembra di più un ragazzo curioso ma pigro, attento al mondo ma distratto in casa, chiuso nelle sue stronzate da bambino ma sistematicamente talebano su certe convinzioni incrollabili da nonno. Poveretto, ci siam passati tutti, per questo lo porto ai concerti. Guarirà, penso.
La canzone immediatamente prima (posso dirla? Ma dai, cazzo, almeno questa. Questa è sicurissimo che la fa) riguarda un idolo della mia adolescenza e non della sua. Sotto alla felpa, però, quello ad avere la maglietta verdona con lo smiley giallo (e che non usa ancora come pigiama o maglietta per le Grandi Pulizie Di Pasqua) è lui. Non io. La canzone immediatamente precedente che non dirò qual è, dicevo, lui mi prende un braccio, poi ci abbracciamo un po’. Non ci abbracciavamo da cinque anni e mezzo, da quando aveva nove anni, e conta che già a nove anni faceva fatica, perché si vergognava.
Ora mi abbraccia, lo smiley giallo che ride inquieto sotto la felpa.
Io lo abbraccio.
Vivere come nuotare.
Nell’euforia ne canto un pezzetto. Scazzo qualche parola. “La stai cantando tutta scazzata” mi dice. E toglie subito l’abbraccio.
La Sua Canzone Prefe se la sente tutta da solo, invece, in solitudine, ma A un certo punto si è rotto il cazzo di star seduto, tanto nel palchetto dietro non ci ha nessuno quindi si alza in piedi, canta, in piedi, canta la Frase Sui Milioni Di Libri della Sua Canzone Prefe la urla e la urla talmente tanto che se la tatuerebbe sul culo, lo so, poi arrivano i bis, e con i bis si balla un po’, mi alzo anch’io e balliamo. Tutti i palchetti di fronte a noi si solo alzati in piedi e ballano, “COSA DICEVI?” mi urla nell’orecchio, “Dovevamo stare SEDUUUTIIIII?” urla sculettando.
Sculettiamo tutti.
Mio padre, in finale di spettacolo, piangeva come un putto. Noialtri due sculettiamo che è una meraviglia.
“Non scriverai NIENTE di questa sera, vero” mi dice dopo, in macchina, la voce rotta di sonno.
Guido verso casa, ho il torcicollo da prima aggravato da sculettamento da bis, la tachicardia va e viene, voglio un aulin.
“Tu scrivi SEMPRE dei miei concerti, dopo” dice. “I miei SETTE concerti” dice fiero contandoseli tutti lì, sulle dita.
Li ripercorre di nuovo, guardando il buio fuori, poi si addormenta un po’, sul viale che ci porta verso il letto.
“Se scrivo ti faccio leggere prima” dico.
“Cosa cambia” dice lui. “Tanto hai già scritto” dice.
“Se non ti piace, lo butto via” mento. “Non lo darò a nessuno, se non ti piace” mento.
“Che cazzo dici” dice.
“Non dire cazzo” dico io.
Lo guardo addormentarsi, come un bimbo, la testa appoggiata al finestrino, come al ritorno di farinculo di ravenna, l’ultima volta che siamo andati a un concerto insieme.
“Dovremmo farlo più spesso” provo a dire piano, sette sono pochi ne sono convinta. Ma lui non mi sente già più.
Francesca Rimondi