Mi scuseranno tanti altri autori, ma, a gusto del curatore qui scrivente, questo “La Torre” (curiosamente omonimo di un’opera mia che parla di tutt’altro) di Rebecca Lena è uno dei migliori racconti arrivati finora. Denso, intenso, profondo, anche un po’ difficile nello scorrere delle immagini, se vogliamo, ma molto, molto interessante. Seguite dunque le avventure del piccolo Milo, che sfida il caldo e il tempo e lo spazio per raggiungere il suo rifugio segreto, e assaporate le precise descrizioni della Lena che vi faranno quasi sentire il calore del sole sulla pelle. Una cosa però, Rebecca (e tanti altri di voi): per favore, per favore, mandateceli in WORD i racconti! Perchè PDF? Perchè CIPS? Perchè SVLASP? Word. Times New Roman. 12. No eh? Scusate lo sfogo. La parola al racconto.
La Torre
tonfi e battiti
là fuori.
Ma qui si fluttua
senza badare ad essere
si sorride ai miraggi
saturi nella controra
si gode nel calore
dell’adagio sfrigolare
Milo guadava attentamente un tagliaforbice, chinato sul suo piazzale, lo osservava scalare con fatica le dune delle piastrelle rigate. Provò a stuzzicargli le tenaglie col dito indice, per vedere se lo attaccava, ma pareva troppo impegnato per litigare. Gli piaceva quella bestiolina, e non durò nemmeno il breve tempo con cui avrebbe potuto veramente affezionarsi a lui. A pochi centimetri dal suo viso, con un movimento deciso – ben consolidato nel tempo – un infradito rosa d’improvviso lo strisciò via, lasciandone solamente una lunga sgommata davanti agli occhi increduli di Milo.
– Vieni a fare colazione? – esclamò allegramente la zia.
Si alzò e cercò di non pensarci, cominciava quasi ad abituarsi a quella crudeltà mascherata da dovere. C’era stato un giorno in cui addirittura erano stati vicini a convincerlo – della consuetudine di assassinare gli animali piccoli – che per un istante ebbe persino il timore di essere ucciso pure lui. Piccolo com’era, qualche passante avrebbe potuto scambiarlo per un’ insulsa creatura, di quelle che strisciano in terra.
Ma la paura era scomparsa poco dopo. Era troppo grosso lui, in mezzo ai piccoli; e poi la sua faccia si poteva pur vedere: era una faccia umana. Ma quella degli insetti no, non avevano di certo un bel naso scolpito, gli occhi ben proporzionati alla testa, una bocca lucida e polposa.
Loro avevano antenne affusolate, corpi disegnati da trame di colori, oppure vellutati da leggera peluria e infine lunghe ali vetrate. Quanto avrebbe voluto essere un’ape, e dormire dentro i fiori.
Ma fu proprio in quell’istante che un’idea gli balenò per la testa, una spiegazione logica a tutto quanto: esisteva una legge, una regola primordiale insita nella coscienza dell’uomo. Quella di uccidere tutto ciò di cui non si potesse distinguere un “viso” (regola che un tempo, forse, avrebbe potuto contribuire alla sopravvivenza). Perché indubbiamente tutte quelle bestioline, con le loro teste inespressive, non potevano certo dimostrare dolore, quanto piuttosto indifferenza, o insofferenza totale, per la loro stessa morte. Forse un’ape lo era stato; e magari un giorno, mentre affogava nell’acqua abbandonata di un secchio, era stato ripescato con una foglia da un bambino piccolo e grosso proprio come lui. Magari tutti, un giorno, si sarebbero trovati inaspettatamente dentro i panni degli altri.
Che poi, quale senso aveva per Dio sfornare continuamente anime nuove? Quando ne poteva creare una sola, più grande, e farle indossare sempre pelli diverse?
Milo chiuse piano il cancelletto e in quell’istante la nonna gridò di tornare prima del caldo. Percorse i tre scalini, il quarto era già ricoperto di sabbia. Era presto e in spiaggia non c’era ancora nessuno. I gamberetti salterini festeggiavano frizzando sulla battigia davanti a onde impercettibili. Avanzò verso il mare, una distesa di vernice lucida e riconobbe subito quel dolce pizzicorino sotto i piedi, quello della sabbia bagnata che si sfaldava e quello dello sgusciare via, da sotto il tallone, dei loro corpicini morbidi e lisci. La luce tenera e trasversale della mattina era sempre stata quella più stupefacente: il sole ancora un po’ assonnato gli accarezzava le braccia con delicatezza, col calore moderato di una mano familiare.
Raggiunse il molo scalcinato, il grande bruco teso verso l’acqua che, coi ferri arrugginiti qua e là, pareva rabbrividire. Lo attraversò, camminando per l’acqua verde del canale, sotto gli sguardi ricurvi dei pescatori che scrutavano le onde, con la rete in mano e la pelle cotta.
Raggiunse la riva dell’altra spiaggia, quella dove nessuno puliva, dove nessuno aveva costruito, se non qualche capanna di tavole e legni. Una striscia di sabbia larga una quindicina di metri tra mare e macchia mediterranea.
Individuò subito una duna più aguzza delle altre e prese a scalarla, coi piedi arroventati che franavano continuamente insieme alla sabbia; giunto alla cima rimase ammaliato da una distesa ondulata di bassi arbusti verde scuro e marrone. Un bosco in miniatura.
Rimase qualche minuto col respiro fermo. Sentì di poter percorrere quelle catene montuose con pochi balzi.
Proseguì per la spiaggia col sole che curiosava sempre più sopra le sue spalle. E cominciò ad aumentare il passo, doveva raggiungere in fretta la torre di Scampamorte.
Ogni volta che ricordava quel nome, immediatamente comparivano – velando gli occhi – i due soldati intenti a osservare il filo dell’orizzonte sulla cima del vecchio molo, col vento e la pioggia infranti sulla pelle. E quei loro visi sgomenti allo scorgere della riva denudata, per colpa del mare che si ritirava; la paura e la corsa furiosa verso la torre, in tempo per chiudere tutto e pregare fra le mura spesse di pietra.
L’onda mostruosa, con la bocca spalancata e la bava schiumante, la immaginava poi infrangersi
con violenza e morire sulla calce delle pareti esterne. Infine vedeva quei due soldati salvi che, tremanti, riaprivano le finestre quando il cielo cominciava a creparsi di luci e il mare urlava di meno.
Così doveva esser stato, durante quel famoso maremoto del 1627.
Immaginava anche i lineamenti dei soldati, pacati e decisi, come le loro vite eremitiche; almeno uno di loro doveva aver lasciato pur qualcosa fra le mura, una testimonianza della sua permanenza, oppure qualche oggetto rotto, magari abbandonato qua e là sotto la sabbia. Per questo, aveva giurato, la prossima volta che fosse andato alla torre avrebbe dovuto portarsi una pala.
Milo camminava in fretta fra i legni, le casse di polistirolo e tanti altri naufraghi del mare, incrostati dalla ruggine e da piccole cozze. Camminava guardando in basso per paura delle vipere o di lucertole che si fingevano tali, scrutando di tanto in tanto il profilo lontano di carogne marine portate dai maremoti.
La spiaggia era invasa da quelle bestie stremate e putrefatte che si rivelavano puntualmente bombole del gas, tronchi ben levigati o grovigli di sacchetti. Ecco anche una sella di motorino, la poltrona maciullata, un peluche secco e scheletri di sedili. Alla fine, pensò, doveva pur esistere un cimitero per tutti quei bisogni infiniti degli uomini, ed era lì. Contemplato dal ghigno altezzoso delle Idee. Il Suburanio.
Una punta di pietre bianche crebbe in lontananza fra i tamerici. Milo la riconobbe e intraprese il sentiero di tavole marce e chiodi in mezzo ai cespugli. Giunse ai suoi piedi, la torre di tufi si ergeva sopra uno spiazzo d’erba secca e pietre, circondata dal frastuono delle cicale. Respirò l’aria calda intorno che sapeva di bruciato. Le sue braccia sudate cominciarono ad attirare le mosche così si affrettò ad entrare.
La stanza buia del piano terra aveva ancora una grossa franatura che scivolava via da un buco sul soffitto, intorno solo uno strato alto di sabbia odorosa, bottiglie e scodelle secche di letame. Salì al primo piano arrampicandosi sulle pietre sbriciolate che un tempo erano state scale.
L’ambiente sopra era luminoso e ventilato da tre ampie finestre, poteva riconoscere ancora molte nicchie scavate nelle pareti, sormontate da tavole spesse di legni che parevano pietrificati. Percorse quell’atrio fresco costeggiando la grossa spaccatura sul pavimento – quella della frana al piano di sotto – e notò con stupore un vortice immobile che risucchiava pietre e polveri antiche, come una clessidra ferma nel tempo.
Imboccò il cunicolo stretto che portava alla terrazza di sopra.
Alcuni movimenti viscidi in alto lo fecero improvvisamente sobbalzare: due gechi obesi come cuccioli di alligatore che brulicavano sul soffitto. Salì in punta di piedi su ciò che rimaneva delle scale, fissando con tensione ogni fessura scura tra i gradini. Giunse finalmente alla terrazza, glielo disse per prima cosa il cigolio dei gabbiani che sfruttavano i respiri di vento per aprire e chiudere le ali come porte arrugginite.
Poi la distesa blu del mare, ammutolita dalla sconcertante piattezza del cielo.
Esaminò tutto il perimetro in punta di piedi, con le orecchie ben tese ad ogni scricchiolio del pavimento. Soffermandosi distrattamente su tutto ciò che un tempo erano state pareti, notò immediatamente una bella conchiglia, murata sopra la calce. La cosa più stupefacente non era tanto la sua posizione o il fatto che dopo secoli era ancora del tutto integra, quanto il suo foro naturale, perfettamente circolare e simmetrico come una pupilla. Chissà quante cose poteva aver visto quella conchiglia; magari qualche ricordo lo aveva pure conservato, scolpendolo sopra la calce al suo interno come una piccola macchina stenopeica.
Con l’aiuto di un rametto Milo scavò delicatamente la calce secca intorno e la staccò dalla parete con cura. Era grossa quanto metà del suo palmo, ed era solida, sapeva di antico. La avvicinò con trepidazione all’occhio sinistro, coprendo l’altro con la mano destra.
Qualche battito di ciglia per mettere a fuoco e ciò che non si aspettava si accese in un attimo tutto
intorno. Quella terrazza arieggiata, attraverso il piccolo foro, d’un tratto divenne una stanza coperta,
intonacata e con ampie finestre; anche se percepiva ancora le spalle bollenti di sole. Così la allontanò dal viso e la terrazza tornò quella di sempre, circondata da ruderi.
Capì immediatamente il miracolo a cui aveva assistito e una bolla di adrenalina e ansia dolce scoppiò dentro il suo diaframma e si disperse in tutto il corpo.
Prese a esplorare la torre nuovamente, attraverso l’occhio della conchiglia, con quella nuova prospettiva speciale aggrappata alla serratura di un mondo creduto perso. Doveva esistere ancora, il passato, sovrapposto silenziosamente al presente, come una pila di foto su carta velina. Vedeva una stanza più accogliente, con l’intonaco chiaro, i mobili in legno, utensili sconosciuti un po’ bagnati, serrature lucide ben avvitate alla parete, e l’odore di vino, di umida fermentazione attaccata al suolo.
Si accostò ad una finestra per guardare la foce di S. Andrea oltre le dune, c’era una costruzione in legno che non riusciva a definire, forse un molo; il mare stanco nella sua immobilità pareva un lago, così come il cielo, congelato, e le piante intorno sbiadite come acquarelli. In basso, ai piedi della torre, scorse una montagnola di scheletri di pesce sormontata da tafani.
Era un mondo fermo, un attimo cristallizzato dall’occhio della conchiglia; o forse un insieme di attimi, sovrapposti e fusi l’uno con l’altro. Sentiva l’odore pesante delle cose e del silenzio, il sole sulla schiena quasi non esisteva più. Ma non poteva toccare niente di quell’universo, la mano spariva oltre il tavolo e oltre qualsiasi oggetto. Tutto pareva sospeso in una tenue nebbiolina bronzea. Immerse il viso in un armadio e senti l’odore morto di stracci usati.
Un fruscio di piedi scalzi alle sue spalle lo costrinse improvvisamente a voltarsi, fu attraversato da capo a piedi da un violento sussulto di adrenalina. Trattenne il respiro davanti a quella figura in penombra a pochi metri: un ragazzo seminudo. Aveva un braccio alzato e la mano nascosta dall’ombra del viso, a prima vista pareva come in procinto di lanciare qualcosa. Ma indietreggiò anche lui davanti a Milo, ugualmente sorpreso o spaventato; abbassò il braccio e si dileguò all’istante. Senza fare alcun rumore.
E fu proprio quel silenzio sconvolgente, con cui si era dissolto , a inquietare ancor più il cuore di Milo.
Cominciava a tremare e decise che era tempo di andare, sebbene la conchiglia rimanesse ancora ben salda sopra il suo occhio. Scese l’ultima rampa di scale rischiando costantemente di cadere sopra quei gradini che vedeva, ma che non esistevano sotto ai suoi piedi.
Il piano terra era buio e appoggiate alle pareti poteva distinguere pile di sacchi accanto a casse ammassate, tessuti appesi e rattrappiti, attrezzi lunghi in ferro e grovigli di reti. Camminava svelto verso l’uscita posteriore da cui proveniva la luce e non fece caso all’uomo nel buio, appoggiato ad una parete, se non quando gli fu a pochi metri. Nella stanza rimbombò distintamente il tonfo del suo cuore nell’attimo in cui si accorse di quell’uomo e della sua peculiarità di non toccare affatto terra. Stava proprio fluttuando, immobile, a circa un metro dal suolo. E a quel punto non poté non accorgersi che anche i suoi piedi poggiavano
sul nulla; il pavimento in pietra lo vedeva, era più in basso. Eppure lo scricchiolio fresco di sabbia fra le dita lo percepiva eccome.
L’uomo fece un passo in avanti, Milo gli scagliò contro la conchiglia e si precipitò fuori dalla torre con un
balzo. Rotolò sopra la sabbia arroventata, tra punte d’iceberg pietrificate che riemergevano qua e là dai ciuffi d’erba. Scrostò il sangue polveroso dalle ginocchia e dalla spalla destra. Alzandosi sulle gambe che ancora vacillavano riconobbe intorno il mondo da cui proveniva, il fragore della Controra che avvolgeva le dune scricchiolando e sfregando insieme alle cicale. Una striscia celeste sull’orizzonte scoloriva sempre più in prossimità del sole, e non riusciva ad alzare lo sguardo in alto visto che le palpebre protestavano tremando. Osservò a lungo l’entrata buia dalla quale si era lanciato, una fessura nera contornata da tufi ben levigati, in equilibro gli uni sugli altri. Come gli era saltato in mente di lanciare la conchiglia, uno strumento talmente incredibile non poteva essere abbandonato così.
Lentamente si avvicinò all’apertura cercando di penetrare con gli occhi dentro l’oscurità; poi decise di sporgere la testa, e esaminò nervosamente intorno. Ci volle poco ad abituarsi al buio e riconobbe la sala desolata con la franatura scoscesa che proveniva da un lato del soffitto. Era vuota, entrò e distinse nettamente profili d’impronte, specialmente nel luogo in cui si era accorto dell’uomo e dove, subito dopo, si era lanciato per fuggire. Realizzò in quel momento che nessuno dei due aveva veramente volato sopra il suolo, il vero pavimento della torre si trovava forse un metro più sotto, ricoperto nei secoli da strati di sabbia. Riconobbe la forma dei suoi piedi ben stampati sulla sabbia umida, ma solo i suoi. Non vi era stato nessun’altro in quella stanza.
Alzò lo sguardo verso la duna di sabbia e la vide subito. La conchiglia ben adagiata sulla cima, quasi avesse trovato il suo nuovo punto d’osservazione. L’afferrò di corsa e se ne andò. Prese la strada battuta che si insinuava in mezzo alla macchia mediterranea, in questo modo avrebbe potuto camminare più in fretta rispetto alla spiaggia. Era l’ora del fuoco e sapeva di essere già tremendamente in ritardo; i piedi si bruciavano sulla polvere e i sassi arroventati, accompagnando le cicale con un soffice crepitio.
Camminava da almeno un’ora e il sentiero serpeggiava tra i cespugli continuando a snodarsi davanti ai suoi occhi. Si accarezzò la testa con una mano che pareva più pesante del solito, il capo ribolliva, le spalle erano cotte. Il sole lo sfiniva.
Quando il sentiero si fece dritto e più largo capì che non doveva essere lontano dal molo, ma oramai il corpo di Milo sembrava evaporare insieme ai fumi caldi del battuto.
Un’infinita pesantezza pervase improvvisamente la sua carne, come se dovesse trascinare tutte le carogne del passato. I piedi abbandonavano tracce rosso scuro qua e là sopra le pietre, con le unghie dei pollici consumate dal lento strascicare. La pelle tirava, aveva il timore che improvvisamente gli si strappasse in due parti, solcando tutto il corpo attraverso innumerevoli fessure, ma soprattutto temeva che non vi uscisse fuori alcun sangue. Solo lenti sfiati polverosi, gas antichi; proprio quelli che un tempo
avevano sorretto la sua pelle, animandola come una mongolfiera vivente. La carne mummificata scricchiolava e realizzò che era il suo stesso corpo la carogna che si trascinava dietro.
In lontananza comparve dal suolo una pozza, una conca piena d’acqua che rifletteva il cielo e le piante intorno. La osservò con gli occhi ridotti ad una fessura e fu scosso dal guizzo di qualcosa. Lenti cerchi si diffusero là in mezzo, per scomparire lungo i bordi.
Ma non riuscì a raggiungerla, un lungo e intenso grido – lo strappo della sua pelle – sconvolse il suo animo. Rivolse gli occhi tremanti alle braccia: due stracci consumati dai bordi sfilacciati. Si spalancarono increduli sull’orribile movimento brulicante che poco dopo cominciò a scuotere quelle pezze. Farfalle.
Migliaia di ali bianche travolsero improvvisamente il suo viso, sgorgando liberamente dalle fessure del suo corpo. Gli occhi seguirono lo sciame salire e si spensero in quella bianca dispersione, mentre la sua pelle ormai opaca si accartocciava adagio come la muta di un serpente. Passarono molte estati prima che Milo poté ritornare alla Torre.
Dopo quella tragica giornata di ricerche, un pastore della zona lo aveva trovato nel tardo pomeriggio, incosciente e completamente ustionato. Gli fu proibito per molti anni di oltrepassare il molo. Era l’estate dei suoi 19 anni, Milo era ancora un ragazzo asciutto e molto curioso.
Quella mattina sbiadita una tenue foschia cancellava il confine del mare. Milo scese presto in spiaggia per godere del sole migliore, quello ancora un po’ assonnato che accarezzava le braccia col calore moderato di una mano familiare. Poi respirò a fondo il silenzio dell’acqua immobile, condito a tratti dai gridolini di gabbiani.
Un guizzo nell’aria sfiorò il suo orecchio sinistro e per un istante gli occhi incrociarono il battito d’ali di una farfalla. Non fu la prima, rivolto lo sguardo alla sua sinistra, ne fu aggredito dolcemente: un denso stormo candido, come petali sbattenti che urtavano con grazia le sue guance. Rimase annebbiato per qualche minuto da quella bruma luccicante, poi scorse il molo in lontananza. Il suo vecchio mostro adagiato che rabbrividiva.
Milo corse in camera, afferrò la conchiglia e tornò alla Torre.
Niente di tutto ciò che ricordava era stato invenzione della sua mente di bambino, come spesso nel corso degli anni si era trovato a pensare. L’universo perpetuo della torre esisteva ancora, immutato e custodito nel cuore della conchiglia. Divenne il suo rifugio più segreto, fuori dal mondo e dal tempo che lo governava, sempre più spesso, fino alla fine dei suoi giorni.
Ma non fu mai davvero solo in quella torre. Nel corso degli anni aveva cominciato ad apprezzare quella silenziosa compagnia nella penombra, uomini, ragazzi, e almeno una volta all’anno quel bambino. Quello strano bambino affacciato all’armadio, proprio come era stato lui.
Rebecca Lena