Cari amici,

mi sono davvero innamorata del Guatemala. È facile innamorasi del Guatemala. Questa terra è piena di laghi circondati da foreste e montagne sacre, nuvole che si infiltrano tra gli alberi delle montagne, Maya che camminano tra i sentieri e coltivano sui dirupi scoscesi delle montagne orti verdissimi disegnati perfettamente (con il cellulare infilato nella cintura del vestito tradizionale).

Le valli sono densamente abitate e si sono create varie città con case a due piani e strade gremite di venditori ambulanti; baracchini di tortillas, hot dogs, panini all’altezza del “sudicio” di Firenze, succhi di frutta; autobus e mercati, tantissimi mercati, colorati con montagne di frutta, verdura, uova bianche, stoffe tradizionali super costose, erbe naturali e roba cinese di plastica. Tutti sanno fare tortillas, loro pane quotidiano, e anche le signore delle tavole calde familiari girano le loro tortillas prima di iniziare a cucinare il piatto del giorno.

Al mercato mi sono accorta di quanto le persone parlino ancora le antiche lingue Maya che sopravvivono nonostante lo spagnolo e nonostante l’Occidente abbia conquistato l’immaginario collettivo anche qui (come sta accadendo negli altri paesi che ho visto fino ad ora). Le chiese qui sono cristiane a causa del colonialismo perpetuato fino ad ora ma, fortunatamente, ci sono anche associazioni Maya che promuovono la cultura locale legata all’astrologia e al ripetersi del tempo. Il livello scolastico della gente comune non è dei migliori – molti mi hanno chiesto se l’Italia faccia parte degli Stati Uniti – e molti ragazzi stanno più nei campi o a fare tortillas che a scuola.

L’altro giorno siamo saliti al vulcano/montagna sacra di Santa Maria, a fianco della città di Xela, a 3.800 metri di altitudine e raggiungibile solo dopo 3/4 ore di cammino con 1.000 metri di dislivello. In cima alla montagna abbiamo trovato una famiglia Maya che pregava seguendo un rituale fatto di fiori, fuochi di alcool e incenso, preghiere cantate e discorsi. Sotto di loro scorreva un mare di nuvole mentre il sole splendeva sopra le loro teste, riscaldando l’aria pungente e rarefatta. Dopo il loro rituale sono venuti nella nostra direzione commentando insieme a noi il paesaggio meraviglioso fatto di montagne e di nuvole di cotone (come lo ha definito la madre della famiglia). Era tempo di scendere dal vulcano perchè dopo poche ore il sole sarebbe tramontato, così siamo scesi insieme fino al villaggio.

Ci hanno spiegato che tutti erano digiuni dalla mattina per il rito di purificazione. Il padre di famiglia aveva la febbre alta e il rituale era servito per la sua guarigione. L’uomo si sentiva meglio e tutti erano felici ma avevano una gran fame. Durante il rituale avevano bruciato la corteccia dell’albero che cresce sulle pendici del vulcano e che profuma come incenso. Effettivamente quella montagna aveva un’energia positiva che anch’io, da profana, potevo percepire e non mi stupisco affatto che quell’uomo possa essere guarito con tutta l’energia della famiglia diretta verso di lui.

Questo popolo ha una spiritualità che noi non abbiamo, forse perché, vivendo tra le montagne è molto più vicino al cielo, alla natura e, quindi, a Dio.