Prato in Translation è il convegno lungo due giorni (al Centro Pecci il 13 e il 14 giugno – qui il programma) che porterà a Prato fior di studiosi da tutto il mondo per parlare di processi globali, spazi pubblici, trasformazioni economiche, urbanistica, giovani con background migratorio e di tutte le sfide che attendono la città di Prato nel futuro prossimo venturo.
Se Prato è sempre stata vista e additata come un laboratorio economico, politico e culturale, Prato in Translation è il primo appuntamento da molti anni a questa parte che cerca di capirci qualcosa e che cerca di farlo, soprattutto, dati alla mano (ci sarà anche un focus inedito su Chiesanuova, Macrolotto zero, San Giorgio, Santa Maria a Colonica, Iolo e via Valentini ndr) e in un’ottica integrata col resto del mondo. Perché, come ci ha spiegato l’organizzatore del convegno, il sociologo pratese Andrea Valzania, professore associato di sociologia all’Università di Siena, Prato non è certo la sola città ad affrontare fenomeni di trasformazione così repentini e perché adesso potrebbe essere il momento giusto per cambiare prospettiva.
Andrea Valzania, perché il convegno si chiama “Prato in Translation”?
«Perché le trasformazioni che sono avvenute negli ultimi dieci anni sono talmente profonde, talmente veloci, talmente radicali che probabilmente siamo stati un po’ travolti da questi processi globali. Non siamo stati in grado, e non soltanto a Prato, penso anche a tanti altri contesti territoriali italiani, di fermarci un attimo ed essere riflessivi su questi processi».
Cioè non ci siamo fermati un attimo per chiederci cosa stesse succedendo?
«Esatto. La sensazione è che la vita della città e del territorio sia stata freneticamente interessata da questi fenomeni, senza conoscerli, se non appunto attraverso l’esperienza diretta che ciascuno di noi, come cittadino, ha fatto di questi fenomeni».
La prima giornata del convegno è incentrata sul fare la fotografia dello stato attuale della città. Com’è Prato oggi?
«L’idea è di concentrare la prima parte del convegno su che cosa è successo a Prato negli ultimi dieci anni da un punto di vista economico – ci sarà un intervento specifico sul distretto industriale – ma soprattutto dal punto di vista sociale e culturale, lasciando un po’ sullo sfondo, quello economico. Perché? Perché da un punto di vista economico i dati sono sempre stati prodotti, ci sono istituti di ricerca, si sono dati più o meno recenti. E quindi dal punto di vista economico la conoscenza c’è, non c’è invece, a mio avviso, la conoscenza di che cosa è diventato il distretto, diciamo dopo lo studio di Fabio Bracci, che già teorizzava di essere oltre il distretto. Diciamo che c’è stato un blocco delle ricerche distrettualiste, una diminuzione di attenzione verso quello che è diventato il distretto, che si è radicalmente trasformato. E su questo dobbiamo interrogarci perché comunque continuiamo a rappresentarci come un territorio distrettuale. Il convegno prova a dire la sua su che cosa è diventato oggi il distretto e su che tipo di economia locale abbiamo oggi a Prato. Così come prova a dire la sua ancora di più su quelle che sono le trasformazioni sociali e culturali legate alla trasformazione urbana. Perché questo convegno comincia interrogandosi su cosa è successo da un punto di vista urbano a questo territorio, ma soprattutto da un punto di vista culturale, perché l’urbanistica non è una disciplina che si astrae dalle trasformazioni culturali. Quindi quello che abbiamo provato a fare è di mettere al centro le ultime ricerche, proprio le più recenti, che sono state fatte anche per il piano strutturale che è in corso di svolgimento, e di portare queste conoscenze alla città per poter fare una riflessione su ciò che sta diventando questo territorio. Il tentativo è quello, nella prima parte della mattinata, di costruirne una fotografia, rappresentare queste trasformazioni. Nel pomeriggio invece parleremo di spazi pubblici, chiamando Filippo Barbera, che è un sociologo di Torino e sta per uscire il suo libro per Laterza “I luoghi della politica”, in cui fa un lavoro molto interessante sulla crisi dello spazio pubblico. Crisi dello spazio intesa proprio come luogo fisico dove si possa rappresentare interessi collettivi, dove si possa rappresentare un’identità politica. E quindi, secondo la sua tesi, proprio per la mancanza di questi spazi, molta della nostra politica ci sembra perdere di valore, di interesse e di forza. La nostra idea base è partire dai suoi studi e ragionare su come si possono governare questi processi globali che hanno travolto il territorio a livello locale. C’è lo spazio per poterlo fare?».
La mattina dopo si parlerà invece di nuove generazioni.
«Il 13 facciamo una fotografia della situazione: chi siamo, che cosa non siamo più, che cosa vorremmo essere o possiamo essere. Il giorno dopo parleremo di cosa sicuramente saremo. Dico sicuramente perché è un mio pallino. Ci sono delle giovani generazioni con background migratorio che rappresentano sicuramente il futuro di questa città ma alle quali nessuno chiede mai niente. L’idea è mettere insieme riflessioni a due livelli. Un primo livello, diciamo più scientifico, in cui si cerca di capire qual è il ruolo di queste giovani generazioni con background migratorio a Prato attraverso studi che trattano Prato ma non solo. Prendendo, ad esempio, situazioni che già da tempo hanno manifestato questo ruolo. La Krause appunto viene a spiegarci i risultati del suo lavoro anche su Prato, sulle famiglie diciamo transnazionali che mandano i bambini a balia in Cina e poi li riportano indietro. Un fenomeno che riguarda moltissimo Prato e riguarda anche l’impatto sulle scuole, sui servizi e che ha tutta un’altra serie di ricadute. La Deng invece ci parlerà di altri processi che interessano giovani generazioni con background migratorio, in particolare quelli cinesi negli Stati Uniti, perché lei lavora negli Stati Uniti e in Europa, così come la Acocella si concentrerà sulle stesse cose però legate al mondo musulmano».
Quindi ci sarà un’analisi comparata. Anche perché in America le comunità cinesi esistono più o meno da un secolo e mezzo e forse dal loro caso possiamo carpire qualche insegnamento.
«Assolutamente, è l’idea del convegno e anche di Urban Center, un luogo pensato per produrre occasioni di discussione, di conoscenza a livello territoriale, anche su Prato, ma senza guardare l’ombelico di Prato, portando esperienze da fuori più o meno comparabili che ci permettano di capire come la nostra città potrà diventare. Ecco, lo sforzo dell’ultima sessione del convegno è proprio quello di proiettarci verso il futuro, portando questi studi che non riguardano Prato e basta, a parte quello della Krause, e vedere come Prato potrebbe diventare in futuro. Noi crediamo che Prato, al di là di alcune caratteristiche peculiari, non sia molto diversa da altre realtà nel mondo, soprattutto riguardo alle giovani generazioni con background migratorio».
E ci potrebbero anche essere degli spunti di governance.
«Esatto. L’idea l’idea è quella perché in fondo i motivi per cui abbiamo organizzato questo convegno sono sostanzialmente due. Il primo motivo è quello di mettere a disposizione della città tutta una serie di studiosi che lavorano su questi temi e che possono fornire elementi di conoscenza interessanti per i cittadini, per gli stakeholder, per gli operatori politici, per tutti. Il secondo motivo è un po’ di trovare anche delle idee, cioè trarre dalle altre esperienze aspetti replicabili, suggerimenti».
Ma siamo sicuri esistano questi aspetti replicabili, questi suggerimenti?
«Ci sono, perché anche chi viene a parlarci da un punto di vista teorico, conosce le progettualità e riesce a dirci qualcosa. È il vecchio refrain “conosci prima di agire”. Diciamo che in questa città si agisce spesso senza prima conoscere perché siamo come si dice “una città del fare”. Però oggi, viste le trasformazioni così clamorose e profonde, forse bisogna un pochino conoscere prima di agire».
Allora quali sono le sfide che ci aspettano, e se sono sempre le stesse?
«Beh, dipende da cosa si intende per sfide. Il filo rosso che le lega i panel è quello che per gestire, governare e guidare le sfide future di questo territorio è necessario includere politicamente. Includere nel senso di tirare dentro ai processi di costruzione della città che verrà tutti coloro o comunque una parte di coloro che stanno fuori da questi processi, che sono invisibili, esterni».
Il mantra vorrebbe che quelli che noi vogliamo includere siano disponibili a farsi includere.
«Infatti nel convegno mettiamo al centro della riflessione per tutti, a partire dagli operatori pubblici ovviamente, i giovani con background migratorio. Sappiamo benissimo che in passato, e parlando di immigrazione siamo una realtà con ormai cinquant’anni di storia, è stato difficile includere perché c’è stata una grossa resistenza da parte di chi doveva essere incluso, con tutti i problemi di rappresentanza che questo ha comportato. Però ora abbiamo la possibilità, proprio per il tempo che è intercorso tra quelle prime generazioni di migranti e la situazione di oggi, di provare ad occuparci della questione da un altro punto di vista. Proviamo a girare un po’ l’obiettivo: invece di guardare le prime generazioni o i migranti con status particolare, guardiamo questi ragazzi che sono nati a Prato, che parlano pratese o comunque italiano. Proviamo a partire da loro, facendoci raccontare che cosa vorrebbero, come vivono questa città, qual è il loro immaginario. Infatti un grande ruolo ce l’hanno le scuole e una grande sfida aperta, in questa prospettiva, è quella di costruire qualcosa con le scuole. Proviamo a coinvolgere gli studenti e farsi dire da loro che tipo di città vorrebbero, quali sono i loro desideri, qual è il loro immaginario del futuro. Non soltanto di origine straniera, intendiamoci, anche italiani. La grande sfida aperta è questa: coinvolgere chi non lo è nei grandi processi di partecipazione e di costruzione della città del futuro. Oggi, forse, possiamo provare a coinvolgerli un po’ di più, possiamo provare a farli venire fuori, visto anche il ruolo sempre più importante che hanno nel mondo giovanile pratese. Non penso a cose utopiche, ma se voglio un territorio che cambia senza discriminare, senza accentuare le disuguaglianze, devo essere inclusivo. Altrimenti la scelta è quella di governare ignorando queste realtà, o comunque tenendole ai margini. Si possono fare delle buone politiche di inclusione anche così, ma il loro punto di vista sarebbe un buon punto di partenza per politiche più efficaci».
Perché dovrebbe essere proprio adesso il momento giusto per cambiare approccio?
«Perché altre ricerche in altre parti d’italia e del mondo ci dicono che dopo cinquanta, sessant’anni ci può essere una svolta da questo punto di vista».
Nel programma del convegno c’è anche un panel sulle donne musulmane. È davvero un tema?
«È un tema nel tema. Ivana Acocella, la studiosa che verrà a parlarne, ha studiato anche Prato. È una realtà un po’ sui generis in tutta Italia. Prato, come sappiamo, ha una specificità fatta di moschee differenti, fatte da gruppi che non comunicano tra loro anche se sono nello stesso ambito di appartenenza religiosa. Qui pare esserci un problema di rottura fra le giovani generazioni e padri e madri, una rottura radicale. Pare esserci, almeno pare questa l’evidenza dello studio, una ricerca di liberazione da parte delle giovani rispetto alla condizione femminile dentro l’islam, ma soprattutto dentro l’islam in Italia. Quindi è un discorso complesso, diventa una liberazione dal nucleo familiare che impone attraverso la religione il controllo su questi giovani».
Le famiglie musulmane stanno aumentando. Sto pensando soprattutto a quelle pakistane.
«Su questo tema del Pakistan, non vorrei usare parole troppo forti, ma è veramente assurdo che da un punto di vista conoscitivo non esista niente di niente. Niente è un po’ poco. Un altro meta tema è quello della ricerca e della conoscenza su questo territorio. Non si stanno studiando le comunità. A Prato si è investito molto in conoscenza e in ricerca sul distretto industriale, sul quale c’è una letteratura sterminata, ma anche un proseguimento degli studi legati all’interesse soprattutto delle categorie economiche, e dall’altro, all’interno dei processi migratori, si è indagato molto il fenomeno cinese, sul quale c’è una buona letteratura, anche se recentemente non si è più fatto niente di empirico. La cosa un po’ sorprendente è che Prato, essendo come s’è sempre detto un laboratorio composto da tantissimi gruppi etnici, si sia totalmente dimenticato al di là di una rappresentazione statistica del fenomeno, che esiste, di fare l’approfondimento qualitativo di altri gruppi di stranieri, che non sono stati mai studiati. I senegalesi, i pakistani, secondo me anche gli albanesi e marocchini sono solo rientrati trasversalmente in alcuni studi trasversali. Un approfondimento sulla comunità pakistana esiste ma è vecchio di vent’anni, adesso siamo in un altro contesto. Bisognerebbe avere un po’ più di attenzione su ciò che non è cinese, perché è vero che il peso quantitativo è maggiore, ma gli altri gruppi non sono meno importanti, soprattutto alcuni di questi, perché sono portatori di aspetti e caratteristiche molto particolari. Basta pensare al discorso delle due moschee e dell’incomunicabilità tra la comunità che parla in urdu e quella che parla in arabo. Non vengono studiate in profondità».
E questa mi sembra la prossima grande sfida.
«È un’altra sfida aperta che il convegno vorrebbe proporre: tornare a investire e ad aprire un nuovo, grande periodo di conoscenza di questa città. Perché la ricerca non è fatta solo per ricercatori o per i politici o per chi deve poi tradurre l’elemento conoscitivo in politica o in atto amministrativo. La ricerca è fatta per tutti. È cultura. Quindi tutti diventiamo più aperti. Conoscere le differenze, conoscere gli altri, ci aiuta a non stigmatizzare, a non essere razzisti, specie sul tema delle migrazioni. Meno conosci e più metti sotto il tappeto e fai finta di non vedere. Oppure sei razzista, perché ti danno noia le differenze perché non le comprendi. Ecco perché serve fare ricerca, serve a produrre prospettive nuove, un mondo nuovo. Oggi è necessario produrre conoscenza su un mondo che è completamente cambiato da quello che le ultime ricerche sull’immigrazione dicono».