I Modena City Ramblers sono un gruppo attivo dalla metà degli anni ’90. Tutti li abbiamo visti suonare almeno una volta, abbiamo ballato e pogato ai loro concerti, alzato il pugno e preso una sbronza accompagnati dalle loro canzoni. Sono una parte fondamentale della canzone barricadera dagli anni 90 ad oggi, è innegabile. Però, se ci pensiamo un attimo, è strano. L’anomalia di questa formazione (che suonerà a Prato a tutta birra venerdì 13 maggio) è che è una formazione che riesce a sopravvivere a se stessa, impermeabile al tempo che passa e ad ogni possibile mutazione.
Cerco di spiegarmi: una band ha spesso un leader, un cantante riconoscibile piuttosto che un chitarrista insostituibile. I Modena non li hanno, e non li hanno mai avuti: a parte (forse) Cisco che li ha lasciati quasi 20 anni fa e continua a rievocarne le gesta e lo spirito da solo o con altre formazioni, sfido chiunque ad identificare i Modena con un individuo. La loro formazione è in continuo divenire e più di trenta musicisti li hanno attraversati e ne hanno fatto parte. Nessuno dei componenti dei MCR degli inizi è adesso in formazione. Però quando vai a sentirli, nessuno sente la mancanza di ex-componenti o celebra assenze (come ad esempio accade coi Nomadi, altro gruppo che, Beppe Carletti a parte, ha fatto il giro completo).
Altra anomalia: i gruppi hanno, come minimo, un pezzo che è la loro bandiera. I Modena City Ramblers no. Quando vai a sentirli, non chiedi loro una canzone, ma di fare i pezzi dei Modena, anche se non sai quali sono. Non sono una cover band, ma da loro uno si aspetta Bella ciao o Contessa (che non sono pezzi loro e non sempre vengono eseguiti in concerto). I Modena non hanno un repertorio definito, si passa dal popolaresco al tradizionale irlandese, alla canzone partigiana, ai pezzi propri che spesso retoricamente attingono da quello o questo. Sono un gruppo dalle citazioni continue, da Sepulveda a Garcia Marquez, da Peppino Impastato a Gino Strada. Hanno però uno stile preciso? Sì e no. Sì, l’identità musicale è forte, ma da qui a definirla ce ne corre. Si va dal folk al combat rock, dai violini alle fisarmoniche, dai Pogues ai Clash passando per i Mano Negra. Dal partigiano al sandinista. Loro l’hanno definita “celtica patchanka”, che vuol dire tutto e nulla. Più che uno stile, è un’idea.
Non sono una band, sono un brand, un marchio di fabbrica. Tutto quello che suonano diventa automaticamente un pezzo alla Modena City Ramblers, e potrebbe essere l’elenco telefonico di Rubiera (con la dovuta enfasi, s’intende). Loro rimangono lì, in un tempo sospeso tra Materiale Resistente e il Social Forum, tra l’avvento di Berlusconi e i girotondi, in un metaverso che va da Cuba all’Irlanda, dalla pianura padana al Sudamerica, ovunque c’è birra e un popolo oppresso.
Quindi, la conclusione è che sono un gruppo fuori dal tempo, da disprezzare, o peggio ancora da ignorare? No, tutt’altro. Sono una certezza. Un punto fermo. Un paletto. La loro immobilità, in questi tempi ideologicamente fluidi, serve proprio da bussola. Per questo tornerò a sentirli. Però farò di tutto per non alzare il pugno e per non piangere. Me ne starò da una parte con una birra scura in mano a far loro le pulci, come ho fatto in quest’articolo, mentre il piede non smetterà di battere il tempo con loro. Riportando tutto a casa.