Il Centro per l’arte contemporanea Pecci vara una mini rassegna dedicata al cinema ucraino contemporaneo e in special modo al Donbass, la regione contesa da anni dalla Russia. “Oltre a un focus sul cinema ucraino ed i suoi autori di maggior valore – spiega infatti Luca Barni che cura la sezione cinema del Centro Pecci – la rassegna vuole anche essere una finestra su quello che è successo negli ultimi anni e che continua ad accadere nella regione ucraina del Donbass, oggi martoriata dalla guerra, per vedere se grazie all’occhio rivelatore del Cinema sia possibile una prospettiva ancora più autentica e carica di senso rispetto al bombardamento mediatico che subiamo ogni giorno da tv, social e giornali. Ancora una volta abbiamo bisogno del Cinema come straordinario strumento di rappresentazione ed interpretazione della Realtà e non ne rimarremo delusi”.
I primi due film sono gli interessanti esordi di due giovani registe provenienti rispettivamente dal Teatro, Natalya Vorozhbit (Bad Roads – Le strade del Donbass è un film di finzione che quest’anno rappresentava l’Ucraina agli Oscar) e dalla scrittura, Iryna Tsilyk (The earth is blue as an orange è il documentario vincitore al Sundance 2020 per la miglior regia); gli altri due film sono le opere dei due registi ucraini forse più rappresentativi degli ultimi anni, già pluripremiati ai principali festival internazionali (Atlantis di Valentyn Vasjanovyc, Miglior Film nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia 2020, e Donbass di Sergei Loznitsa, Premio Miglior Regia al Festival di Cannes 2018 nella sezione Un Certain Regard).
Il programma dei film
Dal 5 maggio ore 21.15
Bad Roads – Le strade del Donbass (Ucraina, 2020; 100′; v. or. sott. it) di Natalya Vorozhbit, con Igor Koltovskyy, Andrey Lelyukh, Anna Zhurakovskaya
Quattro storie ambientate lungo le strade del Donbass, durante la guerra. Non ci sono luoghi sicuri e nessuno riesce a dare un senso a ciò che sta accadendo. Sebbene intrappolati nel caos, alcuni riescono lo stesso a esercitare la loro autorità sugli altri. Tuttavia, in questo mondo dove il domani potrebbe non arrivare mai, non tutti sono indifesi e infelici. Anche per le vittime più innocenti può arrivare il turno di prendere il controllo della situazione…
Candidato a rappresentare l’Ucraina agli Oscar 2022 per il Miglior Film Internazionale
L’esordio registico dell’autrice teatrale ucraina, che si è fatta conoscere sui palchi di Londra. Quattro istanti sospesi nella quotidianità del conflitto del Donbass (di Sergio Sozzo, sentieriselvaggi.it)
C’è sempre un momento, nei quattro stalli di cui è composto Bad Roads. Le strade del Donbass, in cui tutto si ferma, un istante quasi impercettibile di sospensione in cui i personaggi si guardano, zittendosi, e tutto minaccia di poter evolvere in una esplosione terribile di violenza: è l’immagine stessa la prima a cui prende un fremito, e poi tutt’intorno ai protagonisti qualcosa sembra sussultare. Dura un secondo, poi qualcuno inavvertitamente sorride, e prende una decisione spesso inaspettata. È vero, c’è sempre un punto che non vediamo, fantasmi in ognuna delle storie che Natalya Vorozhbit attraversa: la ragazzina intravista dal preside al posto di blocco, il militare che la giovane innamorata aspetta alla fermata del bus, il plotone al di là della porta “mai chiusa a chiave” dietro la quale è prigioniera la terza protagonista, e la gallina investita con l’auto dalla donna dell’episodio finale.
Il fuoricampo di questi soprusi su figure femminili (compresa la studentessa nell’allucinazione del primo segmento) appartiene alla terribile quotidianità della guerra del Donbass, ma assume da subito una potente valenza simbolica, una linea di confine che i personaggi hanno imparato a scorgere ben evidente, anche se per noi rimane invisibile. Vorozhbit costruisce così un meccanismo della tensione che non accenna mai a placarsi, neanche nel racconto più “leggero” sulla ragazza alla fermata che battibecca con le amichette e poi con la nonna che vuole convincerla a tornare a casa – neppure gli unici minuti di effettivo abuso fisico con cui si apre il terzo frammento, il più insostenibile, servono come sfogo per i nervi tesi che la messinscena assume da subito. A settare il pericolo imminente in queste bolle di tempo immobile e denso ci pensa infatti già il formidabile incipit, con la perquisizione all’innocuo professore a cui i soldati potrebbero sparare da un momento all’altro per futili motivi o una battuta di troppo, minuti che sembrano interminabili prolungati dall’uomo che fa lentamente ritorno con la sua auto: alla base del film c’è il testo teatrale della stessa regista, nativa di Kiev, laureata a Mosca, e che si è fatta un nome sui palchi di Londra, ma Bad Roads. Le strade del Donbass non ne rappresenta una semplice trasposizione quanto un’espansione.
A qualcuno potrebbe venire in mente Loznitsa, per vicinanze tematiche, ricorso alla narrazione episodica, e un certo rigore compositivo. Ma la scansione per quadri è qui un dispositivo che usa il linguaggio del cinema proprio per lavorare sulla dilatazione dello spazio in assenza di tempo, esplora queste gabbie più o meno a cielo aperto (come il pianosequenza sulla prigioniera che vaga per il palazzo-cella) pur rispettando una struttura che si appoggia apertamente alla formula teatrale. Esplicitata dal tono letterario e straniante dei dialoghi, e soprattutto dalla storia finale, questo confronto tra una donna di città e una coppia rurale intorno ad una gallina messa sotto per errore con la macchina, davvero la sequenza maggiormente debitrice di una certa tradizione di apologhi morali che ha fatto grande il romanzo e il teatro esteuropei.
Solo il 12 maggio ore 21.15
The earth is blue as an orange (Ucraina, 2020; 74′; v. or. sott. it) di Iryna Tsilyk. Documentario.
Anna, madre single, insieme ai suoi quattro figli, vive al confine della zona di guerra di Donbas, in Ucraina. Nonostante il mondo esteriore sia pieno di bombardamenti e di caos, la famiglia riesce a mantenere la propria casa un rifugio sicuro, pieno di gioia e di vitalità. Ciascun membro della famiglia ha una passione per il cinema, passione che li spingerà a riprendere alcune scene della propria vita quotidiana durante il periodo di guerra. Per Anna e i suoi bambini, la conversione del trauma in arte è il modo migliore per rimanere umani.
Miglior Regia Doc Straniero al Sundance 2020
“Quanto potere può avere l’arte in periodo di guerra? The Earth is Blue as an Orange[1], diretto da Iryna Tsylik, è un documentario metacinematografico che segue la vita di una famiglia rimasta nel Donbass – in Ucraina – malgrado il conflitto in corso: un inno alla vita raccontato attraverso il potere del cinema. La famiglia su cui l’occhio della macchina da presa ci permette di posare lo sguardo è quella di Anna, madre di quattro figli, che ha fatto la coraggiosa scelta di restare in Ucraina. Nonostante il doversi rifugiare in cantina durante i bombardamenti, nonostante le macerie degli edifici distrutti dalle mine, la famiglia mantiene un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Spinti dalla passione per il cinema, i Trofymchuk decidono di girare un film che racconti le loro esistenze durante la guerra.
Il documentario offre quindi una prospettiva diretta nella vita di una donna e dei suoi figli tramite la realizzazione di un film autobiografico, la cui regia è affidata alla figlia maggiore, Myroslava Trofymchuk, che sogna di diventare cineasta. Ogni membro della famiglia assume un ruolo: discutono, preparano le scene e le girano, poi la madre si occupa del montaggio. La macchina da presa (o meglio, le macchine da presa: tanto quella del documentario in sé, quanto quella del film di cui viene mostrata la realizzazione) entra intimamente nelle loro vite, rimanendo politicamente imparziale.
Se al di fuori dalle quattro mura domestiche ci sono bombardamenti e caos, la casa invece rappresenta un posto sicuro. È dove la famiglia cerca di trascorrere una vita normale nonostante la guerra che imperversa in Ucraina da diversi anni. Lo stesso film che ha intenzione di girare Myroslava raccoglie le impressioni di tutti i membri della famiglia sulla guerra. Non si tratta, come dicevo, di critica politica, ma della semplice e pura esperienza umana di fronte al conflitto.
«War is when some people shoot. And other people shoot the people who shot first. When they start to shoot, mum wakes us up and we go to the corridor. And when they stop, we go back to sleep».
Myroslava descrive la guerra come il vuoto. La sorella Nastja sostiene che la guerra l’abbia resa facilmente irritabile. La madre, Anna, esprime il suo senso di colpa per non aver abbandonato la zona, costringendo i figli a vivere nel timore dei bombardamenti; del resto, era decisa a non abbandonare l’anziana madre e la sorella, rimaste anche loro nel Donbass. È lasciato spazio anche alle parole dei bambini più piccoli. E così, anche il fulcro del documentario di Iryna Tsilyk diventa quello di raccontare le paure e le gioie di una vita che normale non è, ma si sforza di essere tale. Il documentario e il film di cui viene mostrata la realizzazione quasi si fondono, donando a The Earth is Blue as an Orange un sapore metacinematografico. Sotto analisi è lo stesso mezzo del documentario, che serve non solo a noi come finestra sulla vita dei soggetti, ma è anche la loro strategia di sopravvivenza.
La regista ci mostra come la famiglia protagonista risponda alla violenza del conflitto mediante la loro passione per il cinema. La conversione del trauma in arte funge da catarsi: la proiezione del film sul finale del documentario si sofferma sui volti dei cittadini, scoprendo degli occhi che si sentono compresi e si rispecchiano in ciò che vedono.
La famiglia è – fatta eccezione per qualche bambino – totalmente al femminile. Il padre è assente. Ci sono la nonna e la zia a completare il quadro familiare, anche loro senza uomini al proprio fianco.
C’è, tuttavia, una presenza maschile che viene mostrata in modo non convenzionale: quella dei soldati ucraini. A loro, la giovane Myroslava Trofymchuk si rivolge dicendo «Sorridete e dite ‘cinema’» e i soldati – per tutta risposta – si prestano al gioco, sorridendo e posando davanti al carro armato che, in questa maniera, perde la sua connotazione negativa e si riconfigura semplicemente come parte dello sfondo. Per un attimo, sembra quasi di dimenticare le macerie.
Il titolo del film si riferisce a una poesia del surrealista Paul Éluard, La Terre est bleue comme une orange, presente nella raccolta L’Amour la poésie (1929).” (Maria Francesca Mortati, birdmenmagazine.com)
Dal 19 maggio ore 21.15
Atlantis (Ucraina, 2019; 106′; v. or. sott. it) di Valentyn Vasjanovyc, con Andriy Rymaruk, Vasyl Antoniak, Liudmyla Bileka
In un futuro prossimo la guerra tra Ucraina e Russia nella regione del Donbass è finalmente terminata. L’ex soldato Sergeij è tornato dal fronte con una sindrome da stress post- traumatico e non riesce ad adattarsi alla nuova realtà. Dopo il suicidio del migliore amico, anch’egli reduce di guerra, e dopo la chiusura della fonderia in cui lavora, Sergeij aderisce al progetto di un’associazione di volontari specializzata nel recupero di cadaveri di guerra. Poco alla volta, lavorando accanto alla responsabile Katya, capisce che un futuro migliore è possibile.
Premio Orizzonti Miglior Film a Venezia 2019
“Proprio nei giorni in cui si organizzava lo scambio tra prigionieri russi e prigionieri ucraini che avrebbe dovuto, simbolicamente, porre fine alla Guerra del Donbass, a Venezia tre anni fa veniva presentato Atlantis di Valentyn Vasyanovych. Un pugno nello stomaco. Un film implacabile che procede per lunghi piani per lo più fissi e frontali lasciando l’orrore, il dolore, la disperazione, la fine e anche la speranza (in un certo senso) affiorare dalle ferite che sono della terra oltre che degli individui.
Per riflettere sulle conseguenze di un conflitto che non è neppure ancora ascrivibile al passato più recente, il regista sceglie di immaginarne le conseguenze pensando al suo paese in un futuro prossimo, dopo la conclusione degli scontri. Muovendosi tra le coordinate di una distopia estremamente realistica e ben poco fantascientifica, Vasyanovych accompagna Sergeij nel difficilissimo tentativo di riprendere in mano la sua vita camminando sulle macerie lasciate dalla guerra. La sindrome post traumatica di cui soffre Sergeij è infatti la stessa di cui soffre il terreno su cui poggiano i piedi i sopravvissuti; un terreno sotto la cui superficie giacciono mine da disinnescare e cadaveri da ricomporre, un terreno da vangare e scavare per riportare alla luce sia le une che gli altri e cercare così, tra le suture e le cicatrici, la possibilità eventuale di una ricostruzione. Il terreno, come le persone, come le case, le miniere e le fonderie, la società e l’economia… tutto è maceria, tutto è contaminato, tutto è da bonificare.
Muovendosi in una sorta di deserto fangoso, costantemente bagnato dalla pioggia, freddo, inospitale, reso dalla guerra inadatto alla vita, Sergeij prova a guardare in faccia ciò che resta cercando di capire se ci possa essere un dopo, se sia possibile immaginare un futuro. E così, muovendosi tra ruderi industriali, campagne sterili, cimiteri improvvisati, cadaveri senza nome Sergeij comincia a capire che nemmeno andarsene è una possibilità perché le macerie che si porta dentro lo hanno ormai reso inadeguato a qualunque alternativa. Nemmeno un amplesso rubato, il tentativo di rinchiudersi in una bolla di dolcezza e consolazione riesce a tenere lontano il fuori, ad asciugare la pioggia, a fertilizzare il terreno. Almeno non nell’immediato. Un incubo gelido e funereo in cui, forse, l’unico fievole spiraglio è quello del calore. Il calore dell’abbraccio tra Sergeij e Katya che, ripreso ad infrarossi come il brutale assassinio del prologo del film, sembra lasciar entrare – per lo meno – l’idea di una ciclicità in cui dopo la morte, in un modo o nell’altro, si torna a pensare alla possibilità della vita. Forse.” (Chiara Borroni, cineforum.it)
dal 26 maggio ore 21.15
Donbass (Ucraina-Germania-Francia, 2018; 110′; v. or. sott. it) di Sergei Loznitsa, con con Tamara Yatsenko, Liudmila Smorodina, Olesya Zhurakovskaya
Ad un posto di blocco militare i passeggeri maschi di un bus di linea sovraffollato vengono fatti scendere e minacciati di venire arruolati per direttissima. C’è anche un giornalista tedesco, che vorrebbe capire cosa succede ma non riesce a farsi strada tra gli scherzi e la vanagloria dei soldati. Nella regione del Donbass, nell’Ucraina orientale, nel 2014, i separatisti hanno dato origine agli scontri che hanno portato alla proclamazione dello stato della Nuova Russia. Nei palazzi del potere occupati si celebra un matrimonio grottesco, tra risate e pallottole, si sequestrano le automobili e poi anche i loro proprietari.
Premio Miglior Regia Cannes 2018 Un Certain Regard.
La storia di oggi, di ieri, rischia di appiattirsi definitivamente nella bidimensionalità delle strategie di rappresentazione. Ecco la retorica, cuore della riflessione di Loznitsa. (Aldo Spiniello, sentieriselvaggi.it)
La regione del Donbass, nell’est dell’Ucraina, è segnata dal 2014 da un conflitto senza regole e senza quartiere tra le forze governative e i separatisti filorussi, con alterne vicende, occupazioni manu militari, stragi di civili, gloriose autoproclamazioni d’indipendenza e guerriglie diplomatiche. Lo stato delle cose è una terra di nessuno, ci dice Loznitsa, in cui alla guerra vera e propria si accompagna una scia incontrollata di sangue, ruberie e malversazioni a danno dei civili. Da parte delle “gang separatiste”, ci tiene ad aggiungere. Ma soprattutto, questo Donbass così è un luogo in cui non è più possibile distinguere la verità dall’assurdo, la tragedia dalla farsa. Tutto si confonde in questo “riflesso deformato di un mondo sotterraneo in uno specchio incurvato”, come raccontava Varlam Shalomov. Ed è da questa immagine che parte Loznitsa per attraversare le facce scomposte del conflitto, in tredici episodi, o meglio tredici situazioni che molto spesso non concludono, virano nel non senso, sfiorano il delirio del comico per poi ripiombare nell’evidenza del dramma. Dalla delegazione di San Teodosio che chiede aiuti materiali per trasportare un’icona sacra alla violenza crescente, irresistibile di un tentato linciaggio nei confronti di un volontario filogovernativo. Da un improbabile matrimonio celebrato secondo le formule della Nuova Repubblica al fragore dei colpi di mortaio, le esplosioni, i buchi a terra, i corpi fatti a pezzi.
Come già accadeva in A Gentle Creature, quando Loznitsa si avventura nei territori della finzione, avverte l’esigenza di ampliare lo spettro cromatico, i registri, i toni, gli umori. A discapito della lucida nettezza dei documentari, in cui le implicazioni teoriche ed emotive si saldano nella registrazione delle cose. Il grottesco sembra essere la cifra dominante, amplificato dalla dimensione corale del racconto, da quel senso delle masse che già era al centro di Maidan e che appare sempre più come una derivazione personale di quella tradizione formalista sovietica, in cui lo stile era comunque il riflesso di una consapevolezza politica del cinema. L’inquadratura di Loznitsa è sempre piena, di personaggi, di cose, di linee di movimento. Ha una densità che è aumentata a dismisura dalle prospettive scelte, dalla “posizione” della macchina, come nell’agghiacciante finale fisso, immobile, che dialoga in maniera lugubre con i campi lunghi delle proteste di piazza o delle cerimonie di Treptower Park. Ma ogni immagine è sempre, anche, una riflessione sull’immagine, sulla dimensione spettacolare che ormai domina il mondo e non più solo affare di dispositivi di ripresa e rappresentazione. Ed ecco l’ossessione per le foto, i selfie, i telefonini, l’onnipresenza dei media, le riprese Tv, i giornalisti, la ricostruzione a uso e consumo dello spettacolo che si mescola agli eventi, fino a interpolare i fatti con le scene, i combattimenti con le comparsate, a ritagliare il mondo sulla lunghezza focale dell’obiettivo, sulle esigenze della diretta e della cronaca. La storia di oggi, la guerra del Donbass, è come la storia di ieri, i campi di sterminio di Austerlitz: è diventata teatro di posa, una specie di esperienza “di divertimento” mediale, che rischia di appiattirsi definitivamente nella bidimensionalità dell’inquadratura e delle strategie di rappresentazione. Ecco la questione centrale della retorica, che sempre più è il cuore della riflessione di Loznitsa: non la realtà, ma il modo in cui la diciamo e la mostriamo (perciò il grottesco diventa funzionale). La realtà è irraggiungibile del resto. Eccede comunque lo sguardo e la parola. Ed è per questo che, a volte, sembra irrompere con furia inaudita, squarciando ogni velo e ogni inutile pretesa di forma.