Come ciclista urbano devo dire che oramai ne ho viste di tutti i colori e in circa dieci anni di spostamenti in bici in giro per Prato ho capito cosa posso aspettarmi dai vari utenti della strada: so riconoscere le mosse più probabili di ogni pezzo della scacchiera urbana, dal pedone al re TIR, passando per gli imprevedibili motorini. Sono ormai a mio agio con gli incontri, talvolta veramente troppo ravvicinati, che possono presentarsi negli spazi angusti occupati dalle bici nella viabilità pratese. Ho deciso allora di mettere nero su bianco alcune delle mie esperienze: non si sa mai, forse a qualcuno potrebbero tornare utili, come negli scacchi alcune aperture, che solo l’esperienza racconta a chi se le sa guadagnare.
Innanzitutto va ricordato che andare in bicicletta, per sport o per necessità, richiede sempre un livello minimo di attività fisica, una certa dose di fatica e quindi di “disagio”, e anche una buona dose di concentrazione. Il tutto è protratto per un certo periodo di tempo (quello necessario allo spostamento) nel quale siamo esposti ad agenti atmosferici, a suoni disturbanti e a situazioni impreviste, che non dipendono da noi e che inficiano in maniera più o meno sensibile il nostro gesto atletico. Sarà dunque premura del ciclista urbano ridurre al minimo i fattori di disturbo che può controllare direttamente, ovvero la meccanica della bici (funzionamento di ogni parte, scorrevolezza, postura in sella) e l’abbigliamento.
Per quanto riguarda la meccanica, le azioni da intraprendere sono due: trovarsi un buon biciclettaio vicino a casa ed avere delle nozioni di base di meccanica della bicicletta, per sistemare in autonomia le scocciature più banali. Relativamente al vestiario, varia molto dalla stagione e dalla lunghezza degli spostamenti: se si è soliti spostarsi all’interno del comune difficilmente si supereranno i 6-7 km e i 30 minuti di pedalata. Per tragitti di questo tipo suggerisco dunque di non vestirsi troppo pesanti, magari con indumenti traspiranti, da trekking o similari ma niente di troppo specifico. Al contrario se si supera questo raggio d’azione raccomando vivamente indumenti specifici per il ciclismo, pantaloncini con fondello e strati molto traspiranti ma protettivi, ci si può sbizzarrire nella ricerca di capi “stop-wind”, con trattamenti idrorepellenti, termoregolatori e chi più ne ha più ne metta. In questo caso sarà necessario portare con se degli indumenti “civili” per cambiarsi sul posto di lavoro. Sia per l’aspetto meccanico che per l’abbigliamento l’obiettivo finale è il comfort, anche perché se si deve pedalare tutti i giorni sarà molto più facile prendere questa buona abitudine se il feedback complessivo della nostra esperienza sarà positivo.
A questo punto del nostro vademecum immaginiamoci: siamo vestiti in modo adeguato, in sella alla nostra bici perfettamente funzionante, il sole in faccia, una leggera brezza ci scompiglia i capelli alla prima pedalata, tutto procede per il meglio: siamo carichi di energia! E come se tutto questo non fosse già abbastanza meraviglioso per far partire una giornata col piede giusto, stiamo anche salvando il mondo dallo smog e dall’inquinamento, che figata, a costo zero poi! La benzina può arrivare anche a cinque €/l, tanto ormai siamo immuni da questi problemi che affliggono chi si sposta in macchina!
Ma ecco che all’improvviso, come nei peggiori incubi, arriva da dietro qualcuno con un suv, che costa quanto una casa, inchioda a massimo un metro dalla nostra ruota posteriore e suona il clacson con insistenza. L’incantesimo svanisce. La nostra esperienza pregressa da guidatori che si trovano la strada ostruita da un ciclista ci fa immedesimare subito nella parte del conducente del suv. Ci immaginiamo che stiamo facendo rallentare tutta una colonna di auto, di gente che ha impegni improrogabili. Stiamo facendo perdere eoni, ere geologiche, a tutti quegli autisti che moriranno di fame, coperti di ragnatele ad aspettare che il ciclista liberi la strada. Iniziamo a fare congetture su quale sia la nostra colpa. Non siamo stati abbastanza a destra? Forse abbiamo svirgolato un po’ per evitare quella enorme buca rischiando inconsciamente un incidente o forse non abbiamo voluto imboccare quel marciapiede tinteggiato di rosso pieno di passeggini e gente col cane, chissà? Fatto sta che quel tipo lì dietro sembra proprio arrabbiato e ci supera con una sonora sgassata, invadendo la corsia opposta e reinserendosi vicino noi, quasi stringendoci contro il marciapiede, lo risuperiamo in fila alla rotonda e guardiamo dentro: un tipo ordinario, potrebbe essere tuo zio, nemmeno chiede scusa, non ci degna di uno sguardo, forse nemmeno si è accorto che stava per farci cadere. Andiamo avanti senza troppe storie. Tutto questo perché in fondo lo sappiamo tutti, lui e noi: la strada è delle macchine e la bici deve stare al suo posto o finire male.
Questo fatto non mi è successo proprio nei medesimi dettagli con i quali ve lo sto raccontando, potrei dire che sia un sunto, un distillato di tutte le più frequenti rotture di scatole che si hanno andando in bici in città. Questo succede perché il problema centrale della mobilità urbana non è tanto l’inquinamento, come spesso erroneamente si pensa, ma lo spazio.
Certo, anche la tematica ecologica è fondamentale e mi sta a cuore, ma le macchine occupano troppo spazio, anche le elettriche, anche se fossero a pedali sarebbero ormai un mezzo obsoleto ed ingombrante per la vita nelle città del 2022. Da questo fatto dell’eccessivo uso di spazio derivano numerosi problemi, primo fra tutti il modo in cui si progettano le strade: è necessario utilizzare grandi porzioni di suolo per realizzare carreggiate e parcheggi, a totale discapito di chi sceglie mezzi alternativi per spostarsi. Spesso si realizzano, anche in ambito urbano, strade ampie per gli automezzi, che possono così andare a velocità elevata, rendendo la strada pericolosa per tutti gli altri utenti. Di conseguenza si vorrebbero relegare pedoni, ciclisti e monopattini in uno spazio angusto, dove intralciandosi a vicenda, si è costretti a procedere in maniera discontinua e molto lenta. A livello psicologico invece il fatto di avere strade progettate per le auto fa sì che chi è alla guida di un’auto pensi di avere il diritto di fare il gradasso. Stando nell’abitacolo si ha un filtro fra noi e il mondo fuori: un po’ come lo schermo dal quale i cosiddetti leoni da tastiera si permettono di scrivere ogni sorta di oscenità sui social. Da dentro l’auto si ha l’impressione di una sorta di garanzia di impunità, tanto più se si fa uno sgarbo a quel cretino che va a due all’ora in bici.
Il problema è che tutto questo gioco psicologico è insito anche nelle menti di chi butta il cuore oltre l’ostacolo e decide di spostarsi in bici. Siamo tutti un po’ prigionieri di questo subdolo terrore dell’auto, che in fondo ha sempre ragione. Ma usare le due ruote è anche il primo passo per liberarsene.
Dunque, tornando al vademecum, se la strada non è sufficientemente larga affinché un automezzo vi superi senza pericolo è il momento di fare un gesto rivoluzionario, liberatorio, politico tout court: stare nel mezzo della carreggiata. Sì, perché la strada è di tutti e tutti devono avere il diritto di percorrerla in sicurezza, questo è l’unico modo di ribadirlo e farlo accettare a tutti senza nessun effetto collaterale, eccetto la perdita di quei venti o trenta secondi, che il camionista dietro di noi avrebbe comunque atteso in fila nel traffico poco dopo.
Fino ad ora mi sono soffermato su quelli che definirei “i dolori” dell’usare la bici, ma se fosse veramente tutto qui avrei smesso di andare in bici da un pezzo, troppo sudore, troppe auto, troppa fatica! Invece no, perché nonostante tutto spostarsi in bici è uno stile di vita libero, dinamico, anticonformista, sano. Il ciclista per me è un funambolo della strada, l’unico che riesce ad emanciparsi dal traffico e volare sulla città correndo accanto agli uccelli, compagno di strada del vento (se andate verso Nord ce lo avrete contro però). Inforcare la bici è la cosa più vicina a volare, è il mezzo che rende l’uomo l’essere energeticamente più efficiente del regno animale!
Per ultimo, ma non in ordine di importanza, le due ruote sono Zen. Zen, sì, perché soprattutto se usate per fare casa-lavoro, diventano un rito, un atto ripetitivo ma che richiede concentrazione, che ogni giorno viene affinato. Si migliorano le traiettorie, si conoscono i flussi del traffico, si focalizza l’attenzione sempre su qualcosa di nuovo. Con la ripetizione il corpo si abitua, la fatica diminuisce e si acutizzano i sensi: il respiro si fa più calmo e misurato, si riconosce il canto di una nuova specie di uccelli sull’albero alla prima svolta, si notano le espressioni delle persone intorno e i pensieri fluiscono liberi, gonfiati dal vento. Anche quei fiori fino a ieri non erano sbocciati: è proprio primavera! Si imparano anche i dettagli della strada, mi capita spesso di imboccare una curva sapendo perfettamente dove sarà quella buca che adesso è nascosta da una siepe, si impara a spingere un po’ di più per superare una pendenza e si gode della inevitabile discesa che segue, apprezzando finalmente anche la gravità che ci tiene con i piedi per terra.
Una volta arrivati a destinazione la sensazione di essersi regalati un momento di bellezza è netta, quasi quanto è viva la frustrazione di aver passato una buona mezz’ora in fila, imprecando per il prezzo della benzina e per quel deficiente che non sa guidare.