La consapevolezza di chi può e vuol far a meno. La netta sensazione che esista un’altra narrazione, più genuina, più vera, più «uguale a me stesso». Si racconta senza filtri Enrico Matheis, in arte Evry, musicista ed artista. Ma soprattutto giovane pratese di 29 anni, che dopo aver assaggiato il gusto dolce amaro dello “showbiz” ha deciso – al limite del nauseato – che noleggiare un camper, partire quasi senza senso carico solo di entusiasmo, un pugno di amici più che colleghi ed una valigia colma di strumenti e di sogni, fosse uno dei modi più veri «per far veicolare un messaggio, per raccontare e dire qualcosa, in un momento in cui la musica è quasi spettatrice».
Evry, dove t’innamori della musica, in Africa o in Italia?
«Mia mamma è nigeriana. Io sono il settimo di sette fratelli, l’unico nato in Italia. Mio padre se n’è andato che manco me lo ricordo e, fin da piccolo, sono stato preso in affidamento da una famiglia italiana, qui a Prato. Due genitori più grandi del solito, quest’anno superano infatti gli ottant’anni. Sono stati loro a farmi innamorare della musica. In una maniera quasi viscerale».
Che brani ti facevano ascoltare da piccolo?
«Sono cresciuto con le canzoni di Guccini, di De Gregori, di Lucio Battisti e De Andrè. E poi soprattutto Renato Zero. Di cui ho un vivido ricordo: per la mia maggiore età ero a Roma al concerto per i suoi 60 anni: un’emozione assurda».
Cantautori di spessore. Molto distanti dalla musica di oggi?
«Sono stati le mie fonti d’ispirazione, avevano ed hanno poi una credibilità tangibile. I musicisti che vanno per la maggiore adesso peccano proprio di credibilità: se ne escono cantando la povertà, attaccando il “sistema”, e poi se ne vanno a giro sfoggiando Rolex e macchinoni. Adesso è tutto più immediato. Senza troppi contenuti. Una musicalità usa e getta».
Il Datini la tua scuola. Il cameriere la conseguente declinazione. E la musica?
A 16 anni ho lavorato in un locale del centro storico per pagarmi le vacanze con gli amici. L’estate successiva sono passato da un altro locale dove facevano karaoke. La titolare mi vide canticchiare e mi fece: “perché non provi?”. Andò alla grande. Cantai “Take me to church” e da lì cominciai ad avere un mio piccolo e costante pubblico composto da più di 50 persone. Dopo aver iniziato a suonare la chitarra, qualche anno dopo misi su il primo gruppo“Opposite”, con Amedeo Ponsecchi.
Da lì un crescendo. Che ti porterà davanti ai giudici di X Factor, nel 2016.
«Con “A me me piace o’ blues” di Pino Daniele. Un ragazzo di colore che parla pratese e canta in napoletano. Ai giudici piacque tantissimo. Ed entrai in squadra con Arisa. Ai bootcamp mi fece alzare proprio lei. In sala il pubblico le rispose con un minuto pieno di fischi. E a me arrivarono 10mila messaggi di supporto. Dopo quell’esperienza cominciai a poter credere ad un futuro fatto solo di musica».
Diego Calvetti, produttore discografico, ti nota. Ma l’apice lo tocchi con Malgioglio.
«Era il produttore di Ermal Meta, conosciuto per essero uno “cazzuto”. Registrai con i The Jack (band tutta pratese formata da Fabio Giuliani e Simone Gabbiani), poi ci fu l’Arezzo Wave del 2018 e la mitica apertura dei Gogol Bordello a capodanno del 2019. A seguire i Modena City Rambles ed infine proprio Cristiano Malgioglio.
Come entraste in contatto?
«Fu proprio tramite Calvetti. Stava lavorando su di me e Cristiano entrò in sala registrazione, ascoltò la mia voce e disse a Diego: “Tessoro, di chi è questa voce stubenda?” (ne fa la parodia alla perfezione, ndr). Il lunedì ero a Milano con lui, al Platinum Studio a registrare “Tutti me miran”, pronto per l’estate del 2021».
Però il covid si mette di mezzo, e che succede per Evry?
Ti dico soltanto che tra i vari lockdown sono saltate 35 date estive. Tutte quasi sold-out. L’unica che resse fu il concerto parziale del 2021 all’Arena di Verona diretto da Rtl, con le loro “power hits”. Lì me la godetti: c’erano Carl Brave, per me un sogno, e anche Noemi, con cui feci la cover di “Glicine”, un suo pezzo che a lei piacque tantissimo. Ma la ruota economica faticava a girare».
Vabbè, un po’ di royalties da “Tutti me miran” ti saranno arrivate.
«Macché. Manco alla Siae mi avevano registrato tra gli autori. Chiamo Cristiano e lui mi fa: “Che c’è amore, problemi di soldi? Ti mando 700 euro”. Bella solidarietà. Ti promettono le stelle, e poi manco ti danno quello che effettivamente è tuo».
Ed è lì che hai deciso di darci un taglio con quel mondo fatto di lustrini e paillettes?
«Proprio in quell’istante: il covid ha riorganizzato le mie priorità, il mio modo di fare musica. Ho riscoperto il valore dei legami, quelli veri, indissolubili. Il valore dei progetti fatti con il cuore, con amici più che colleghi, con cui condividere un’idea, e non solo uno spartito. L’isola d’Elba e il folle viaggio itinerante la scorsa estate nacquero così: con la voglia di mettersi in cammino e fare musica, senza troppe
costrizioni. Un gruppo di “guasconi” con soltanto qualche data fissata e un vecchio Dimar (un camper degli anni ’80, ndr). Alla fine fu un successone: oltre 10 date e alcune splendide improvvisazioni per la strada. Da lì decisi di ripartire. Pieno di buoni propositi per il 2022, ed un album pronto ad uscire a breve».
Che posto occupa la Nigeria, nella tua vita di oggi?
«L’anno scorso ho fatto una feat con Charles Onyeabor (cantante nigeriano, ndr), figlio d’arte di William Onyeabor negli anni ’70. “Do it your way”, prodotta proprio in Africa. Senza esserci mai stato in fin dei conti, sono riuscito a far musica con la Nigeria, per la Nigeria».
E Prato?
«Prato è casa mia. È la mia terra. È cambiata tanto però. Prima la gente sapeva da dove veniva. Adesso c’è tanta spocchia. E tanto qualunquismo. Sono diventati quasi tutti imprenditori, pur non essendolo. Ma è la stessa città che mi ha accolto. E non mi ha fatto sentire diverso dagli altri».