Gianfranco Capitta è stato ed è uno dei più importanti critici teatrali italiani. Ospite fisso di Contemporanea, almeno finché c’è stata, è tornato a Prato qualche settimana fa per raccontare una cosa che «È l’unico – ha spiegato Edoardo Donatini introducendolo – in grado di raccontare, senza nulla togliere agli altri: la storia della nascita del Fabbricone e quella di Ronconi a Prato”. Un legame, quello con Prato, che lo stesso giornalista chiarisce subito, «Prato ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione teatrale», e che ripesca anche al termine del suo racconto, annunciando che quando sarà il momento lascerà il proprio archivio al Metastasio.
Il racconto di Capitta non è didascalico ma si concentra soprattutto sull’originalità del lavoro svolto dal Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato e sul ruolo che questo ha avuto per tutto il teatro a venire. A Prato la narrazione della nascita del Fabbricone e del lavoro di Ronconi ha un che di mitologico: nei racconti degli addetti ai lavori e anche in quelli della politica successiva. E dev’essere stato un momento davvero straordinario per la cultura italiana del tempo se nel maggio del 1978, Italo Moscati scriveva sull’Europeo: Se ancora non lo avete fatto, prendete un treno e andate a Prato per questo spettacolo. Ne vale la pena. Vi troverete di fronte alla più considerevole esperienza scenica che può offrire oggi il nostro teatro. È il punto che segna lo spartiacque fra la Tradizione e l’Avanguardia.
Il riferimento è a Le Baccanti, lo spettacolo che Ronconi mise in scena all’ex collegio Magnolfi con una sola attrice, Marisa Fabbri, «che conduceva gli spettatori (24 in tutto ndr) in una specie di seduta spiritica itinerante – la descriverà Capitta – in una vera e propria escalation di emozioni». Il Laboratorio Teatrale di Prato apparve capace di creare qualcosa di nuovo, di mai visto nel teatro dell’epoca, e non solo dal punto di vista scenico e drammaturgico. Gianfranco Capitta lo mette subito in chiaro. Prima di Ronconi e del Laboratorio, al quale presero parte alcuni (Cooperativa Tuscolano ndr) dei nomi più importanti del teatro successivo ma anche quelli di Gae Aulenti, che si occupava delle scenografie, o per fare un altro esempio, quello di Dacia Maraini, «L’unica docente del Laboratorio ancora in vita», ci fu l’idea di portare a Prato tutto questo, di trasformare una città tessile in un luogo di vera sperimentazione. Una volontà politica ben precisa.
«A Prato succedevano cose da fantascienza – racconta Capitta – fu l’assessore Eliana Monarca a raggiungere la Biennale di Venezia e a invitare Ronconi. Ronconi arrivò a Prato e mise in piedi una cosa originalissima. Quello del Laboratorio era un progetto ambizioso, portato avanti con un gruppo di attori composti soprattutto da donne e in tre spettacoli, che sono ancora capaci di parlare al pubblico di oggi – assicura – scrisse una storia del teatro a sé stante, dimostrò come il teatro fosse capace di andare oltre gli stereotipi e le convenzioni sociali e pose le basi per tutto il teatro che sarebbe arrivato dopo. Spesso sottovalutiamo l’avventura del Fabbricone – continua il giornalista che insieme a Ronconi ha scritto “Il teatro della conoscenza” – ma Ronconi a Prato ha rifatto il teatro, che poi è un modo d’intendere la vita».
Ronconi non lavora solo sul testo e sulla formazione degli attori, lavora anche sullo spazio, e questi spazi pratesi parlano agli spettatori ma anche a tutto il resto della città. «Quelle di Ronconi sono invenzioni che poi faranno scuola – dice Capitta – Per il Calderòn di Pasolini trasforma l’intera platea del Metastasio in palcoscenico e relega il pubblico nei soli palchi, trasformandolo in voyer. Il teatro, che è luogo della finzione, permette di osservare il mondo che vorrei. E poi al Fabbricone (La Torre di Hugo von Hofmannsthal, 9 ore e mezza di durata in due giorni, 70 spettatori ndr), con Branciaroli protagonista, mise in piedi una cosa ancora meno catalogabile, che stravolse lo spazio del capannone con uno spazio completamente diverso, c’era un gigantesco affresco di Tiepolo sul soffitto. Era lo scontro tra il lavoro e il disimpegno. E infine le Baccanti, quel viaggio negli ambienti dell’ex istituto: la città doveva anche confrontarsi con la propria storia e la propria coscienza. Prato diventa capitale del teatro di pensiero, di provocazione, e questo scatena dibattiti e attacchi – conclude Capitta – e questo influenza anche la politica della città, con l’assessore Monarca che finì per dimettersi».
Foto anteprima via lucaronconi.it