Flores e Prats è il nome di uno studio spagnolo di architettura famoso in tutto il mondo. Pluripremiati per i loro progetti di riqualificazione e per gli innovativi sistemi di progettazione utilizzati, Eva Prats e Ricardo Flores sono stati invitati a Prato per raccontare quello che è forse il loro lavoro più rappresentativo, il recupero dell’edificio che ospita la Sala Beckett di Barcellona.
Non è un caso che siano arrivati a Prato, in una delle sere immediatamente successive all’alluvione del 2 novembre. L’incontro, introdotto da Marco Brizzi, faceva parte degli approfondimenti intorno al progetto di riqualificazione del Fabbricone, di cui il prossimo 11 gennaio verranno rivelati i risultati del processo partecipativo. Insieme al duo Flores e Prats, al Fabbricone c’era ancora Marco Cremaschi, professore alla scuola di Urbanistica di Sciences Po (Parigi), chiamato a raccontare gli intrecci tra teatro, politiche urbane e sviluppo urbanistico.
Salvaguardia del patrimonio emozionale
Forse avrete visitato o sentito dire della sala Beckett di Barcellona. Comunque sia, dovete immaginare un edificio a due piani, sede di quella che un tempo era una cooperativa operaia che metteva a disposizione per gli associati un supermercato, un’aula scolastica, un bar e un teatro. Un edificio costruito negli anni ‘20 del Novecento che ha finito per essere abbandonato.
Patrimonio emozionale è un concetto che significa proprio quello che si può immaginare: il patrimonio di emozioni e affetti che lega una comunità a un luogo. E quindi, nella riqualificazione di un edificio dalla storia importante per una comunità, qual è il modo migliore per salvaguardarne l’eredità non solo fisica ma anche culturale ed emozionale? Cosa si può fare per impedire che l’edificio, in disuso o meno non ha importanza, diventi un nuovissimo ma asettico rettangolo di mattoni slegato dal quartiere in cui è inserito? E infine, come si può legare questo concetto alla riqualificazione del Fabbricone?
Flores e Prats rispondono a queste domande con un metodo di lavoro che non è solo architettura, o forse è la summa di quello che dovrebbe essere l’architettura quando tratta il recupero di un edificio. Da una parte mantenendosi fedeli ai colori originali, catalogando e riutilizzando i materiali dell’edificio, dalle piastrelle alle porte e alla finestre (33 porte e 45 finestre, mantenute quasi tutte); dall’altro trasformando i volumi originali per ridisegnare le funzioni ospitate nell’edificio e infine coinvolgendo il quartiere nel dibattito sulle funzioni future dell’edificio.
Lo studio di architettura spagnolo lavora creando dei veri e propri modellini dei progetti perché è il modo migliore per comprenderne i risultati finali. E il risultato finale è uno spazio dedicato alla drammaturgia contemporanea che ospita spettacoli, corsi, laboratori e incontri di ogni tipo e anche un bar, accessibile direttamente dalla strada. Un edificio che non rinnega la propria storia ma che, mantenendola viva, ne esce arricchito da tutti i punti di vista.
In chiusura, la coppia di architetti riflette anche sul Fabbricone, «un teatro il cui interno è completamente nero. Il concetto di farne la porta Nord della città è molto buono – dicono – il nuovo progetto deve probabilmente riflettere anche su cosa vuole mantenere della fabbrica, del teatro che ha ospitato finora e della figura di Ronconi e come il lavoro di ristrutturazione dell’area si legherà al resto della città».
Contro la cappuccinizzazione dell’Europa (e di Prato)
Della direzione che deve intraprendere il progetto del Fabbricone e della figura di Ronconi ha parlato anche Marco Cremaschi, inquadrandola però in un contesto urbanistico e sociale ben più critico.
L’excursus di Cremaschi sul rapporto del teatro con l’urbanistica, e quindi con la città, parte da lontano, dagli anni ‘60, un periodo in cui lo spazio pubblico non era certo in cima ai pensieri della politica (e a Prato ne sappiamo qualcosa ndr). Poi, ha spiegato, e quindi sintetizziamo al massimo, la sociologia scopre il teatro e il teatro viene usato per raccontare la città (Jane Jacobs): «la strada è un balletto di persone, il marciapiede è una struttura che si autorganizza». Poi arrivano gli anni ‘70 ed è il teatro a scoprire le città, uscendo dai luoghi istituzionali, con le esperienze cruciali di Peter Brook e di Luca Ronconi a Prato. Ma poi, ha raccontato Cremaschi, cambia il mondo. Negli anni ‘80 il centro delle città diventa il centro dello scambio, la base dell’economia. Un vero e proprio rinascimento urbano, con i marciapiedi che spuntano ovunque per far incontrare le persone, una vera e propria economia del movimento. E anche una sorta di “cappuccinizzazione dell’Europa”, la chiama Cremaschi, che negli anni ‘90 assume caratteristiche paradossali, fine a se stesse, e trasforma le città in festival permanenti. Un tipo di economia che tende a riproporre situazioni di esclusione.
«Le eredità emozionali si reggono sul principio che il diverso è positivo, è figo – mette in guardia il professore – Oggi però le differenze sembrano contare più delle diversità e le differenze portano a disuguaglianze sociali. Quando si pensa alla riqualificazione del Fabbricone dovremmo pensare a come agirebbe Ronconi ma probabilmente non ci sarebbe più bisogno di andare in fabbrica a fare teatro e forse, ha aggiunto, dovremmo chiederci «cosa significa fare cultura in un mondo che non è più organizzato in cultura alta e cultura popolare e alzare una barriera a difesa della cultura alta, che invece la dinamica urbanistico-economica tende a unificare a quella popolare».
«Il Fabbricone non è solo un teatro, una fabbrica, un centro di produzione con un giardino vicino ad una gora e accanto ad un banale supermercato, con un parcheggio indegno di una società civile – conclude Cremaschi – Per questo serve un po’ di urbanistica: un progetto come questo si sviluppa nell’arco di 10 anni – conclude – le amministrazioni cambiano e bisogna resistere a chi è pronto a fare valere il plusvalore per acquistare tutto il resto della zona alla fine del progetto. Bisogna superare la differenza degli attori in gioco per costruire un nuovo pezzo di città». In pratica, evitare la gentrificazione.
Foto di anteprima via Sala Beckett