Grinta è un artista hip hop pratese che spazia dall’old school alla trap. Uno dei più attivi della nostra scena, grinta di nome e di fatto. I suoi testi e produzioni sono caratterizzati da tanta energia e passione, lasciandosi influenzare dalle tante correnti che caratterizzano il suo genere e non solo. Ora si è trasferito a Genova, dove cerca nuove strade per la sua musica, che diventa di pezzo in pezzo sempre più matura: Prato gli sta stretta, la realtà di provincia e la paura di diventare “uno dei tanti” lo hanno portato nella città di De Andrè e Fossati, dove oggi – sarà un caso? – si sta sviluppando una delle scene rapper più vivaci del Paese.
Grinta ha le idee chiare: ama la vecchia scuola del rap newyorkese, Dino Campana e vorrebbe suonare un pezzo con Manu Chao. E secondo noi è arrivata l’ora che lo conosciate.
Fai finta che nessuno sappia chi sei: chi è Grinta?
Sono Grinta, classe ‘96. Grinta in arte, mi chiamo Pietro. Sono nato a Prato, sono sempre stato un rapper, da quando ho 13 anni. Ho sempre ascoltato questo genere musicale, l’ho sempre sognato, l’ho sempre scritto. Da quando ho 18 anni mi trovo a lavorare nella musica fortunatamente. Ho lavorato tantissimo in Toscana, ho collaborato con artisti, produttori, ho lavorato in studio, ho fatto qualche palco anche importante e ora sono a Genova per aprire un nuovo capitolo del mio curriculum musicale e artistico. Genova è una piazza dove si interscambiano tante figure del mondo dell’arte, non solo gli artisti. La musica non è fatta solo dagli artisti, ci sono mille altre figure intorno: sono venuto qui adesso per collaborare e conoscere nuove dimensioni e persone.
Hai iniziato ad ascoltare e fare rap a 13 anni: l’hai scoperto da solo o qualcuno che lo ascoltava già te l’ha fatto conoscere?
Faccio parte di quella generazione cresciuta con i primi YouTube. Quando stavi li quelle poche ore che ti permettevano i genitori qualcosa ascoltavi. Poi mi è arrivato tra le mani il primo disco di Eminen: me lo fece ascoltare mio zio, che non è mai stato un rappettaro in realtà. Quelli erano gli anni di Eminem e 50Cents, i primi ascolti erano quelli: da lì ho scoperto tutto il resto del mondo, anche quello che era stato prodotto prima e che mi ha fatto appassionare totalmente al genere, come tantissimo rap newyorkese, dai Wu Tang a Notorius.
Anche la scena italiana?
Si, c’era la scena italiana di inizio 2000, con gli Uomini di mare di Fabri Fibra, “Sindrome Di Fine Millennio”, un album bellissimo, i i Club Dogo con “Mi fist”. Erano le due facce della medaglia: due stili diversi che hanno fatto scuola a tanti nel nostro Paese, uno molto lirico, sentimentale e uno molto underground, hardcore e diretto.
Da che parte propendi tu?
Io mi sento proprio nel mezzo, e credo che la mia musica lo dimostri: ho dei lati molto sentimentali e dei lati in cui non ho voglia di parlare, ho solo voglia di offenderti. Ho sempre visto la musica come una parte di me, quindi penso che, in quanto parte di me, è giusto che abbia questa oscillazione: le persone non sono mai sullo stesso canale, secondo me.
Possiamo dire che il rap è un nuovo cantautorato, racconta con le basi invece che con la chitarra. Basti pensare che l’ultima Targa Tenco, il premio italiano della musica d’autore, l’ha vinta Marracash con il disco “Noi, loro e gli altri”.
Assolutamente, ed è una cosa che, vivendo a Genova, senti anche di più. Questa è la patria del cantautorato, da Fossati a De Andrè. Anche i ragazzi, di ogni contesto sociale, sono sempre cresciuti con quell’esempio musicale in testa: che si parli del ragazzo di periferia, quello del centro, quello dell’est, quello del porto, quello dell’ovest, quello dell’entroterra…quella cultura c’è. C’è un film molto bello che consiglio, si chiama “La nuova scuola genovese” che racconta il contrasto fra cantautorato e rap: nel 2016 Genova è stata un po’ la capitale, ha tirato fuori artisti che in Italia hanno avuto parecchio peso. Per come la vediamo in Italia il rap è il nuovo cantautorato, penso sia una cosa anche sana, per creare uno stile di rap riconoscibile nel mondo, il fatto di prendere le mosse dai cantautori.
Sei partito da Prato, sei andato a Berlino e sei finito a Genova.
I miei viaggi in realtà partono da molto prima, sono nomade da quando sono nato. A Berlino andrai oltre la musica, è stato un viaggio totalmente diverso, mentre Genova è un viaggio molto più mirato per quello che sto facendo, è una città che frequento da quando ho 17 anni e dopo tanti anni ho deciso di trasferirmi.
Dunque, a Genova hanno il dialetto. Mi vengono in mente i rapper napoletani, o i romani. Noi il dialetto non l’abbiamo: come vivi questa cosa? Il fatto che gli altri abbiano una loro lingua mentre noi siamo legati all’italiano, o a limite ad una calata legata ad un vernacolo, volenti o nolenti.
Da quando ho scritto la prima volta ho deciso che in toscano non avrei rappato mai, e non solo perché è una cosa che non sopporto, è anche una questione fonetica: ci sono dialetti che si sposano benissimo al rap, il napoletano sembra fatto a posta, mentre il toscano no. Noi tentiamo tanto ad aprire le ultime lettere delle parole quando invece nel rap devi avere una cadenza molto precisa, come il napoletano che taglia tutto di netto. È anche una cosa che mi mette un po’ il nervoso: il nostro dialetto è una delle cause per cui noi toscani non veniamo presi sul serio a volte, colpa di un certo cinema comico che ha creato negli anni tanti stereotipi. Se le persone leggessero qualcosa di Dino Campana forse sui toscani avrebbero un altra idea.
Apriamo la parentesi musica nuova, disco nuovo, canzoni nuove: hai aperto i concerti di Frah Quintale, Achille Lauro, Inoki, Guè Pequeno e hai collaborato con il chitarrista pratese Riccardo Onori.
Ho avuto l’onore di avere la passione di Riccardo in un mio pezzo (“Filo d’aria”): ha lavorato con me spalla a spalla, è stato disponibilissimo. È stato un mentore per quella canzone, mi ha dato davvero tanto: avevo già in testa l’idea di volere lui, ma non mi aspettavo tutta questa complicità nel lavorare. È uno dei pezzi più profondi che abbia mai scritto e sono contento del lavoro fatto. Mi è dispiaciuto sia uscita nel periodo Covid, non c’è stato modo di portarla molto in giro live: ho voluto tributare quella canzone facendo un video live, non aggiungendo niente. Meritava un video live.
La tua nuova musica in poche parole
Forse la parola che racchiude tutto è “maturare”. Non dividendo il personaggio dalla persona la mia musica va di pari passo col mio essere. Ho sempre fatto musica con dei paletti un po’ troppo fermi, che questa città e le sue persone mi stanno togliendo pian piano. Credo di star facendo musica molto più matura e sincera.
Questi paletti te li eri autoimposti per dover rientrare in un certo genere?
Un po’ quello, un po’ perché la dimensione da cui venivo. Prato è una città meravigliosa ma chiusissima. Il pratese è il pratese, quello che succede in quelle quattro mura resta li, come il Fight Club. Come spesso fa la provincia, senza malizia né cattiveria, ti chiude e circoscrive in recinti e modi di essere, e questa cosa mi stava limitando tantissimo. Se ti circoscrivi là dentro diventi l’ennesimo, e io non voglio pensarmi come l’ennesimo. Diventa anche noioso. L’avere altri temi su cui lavorare, che non sono solo quelli legati al mondo di rap e hip hop è importantissimo, ed è fondamentale affrontare tematiche al di fuori della strada o delle vite al limite, ed aprire il cuore e la mente verso collaborazioni con artisti che vanno al di fuori della cerchia della tua musica. Essere meno chiusi.
Se tu potessi scegliere un artista con cui lavorare, che non rientra nel rap, con chi ti piacerebbe collaborare?
Non lo so, dovrei fare tipo un mixtape di 15 canzoni e non basterebbero! Se mi trovassi in studio con una birra ghiacciata, d’estate. Uno studio con tanta luce che entra, che è raro negli sudi, mentre sono preso bene: Manu Chao. Ma ce ne sarebbero altri miliardi.
Hai suonato all’Off Tune Festival a Officina Giovani, in un cartellone con tantissimi stili e generi. Probabilmente eri l’unico che faceva davvero rap. Unire così tanti generi quindi funziona.
Si, funziona. A parte che è sempre bello suonare a Prato, e Officina Giovani è un palco che incredibilmente mi mancava. In più mi piace tantissimo mettermi in gioco, ed essere l’unico rapper in una scaletta di non rapper mi stuzzicava moltissimo. È stata una bella esperienza, mi sono divertito e le persone hanno risposto bene.
Hai in ponte nuove date in futuro?
Delle date nuove vere e proprie no, ma dal 2023 c’è da stare molto all’occhio.