Sala piena ieri, venerdì 7 ottobre, per l’evento di punta del Centro Pecci Books Festival 2022: Ezio Mauro, 74 anni, direttore della Stampa e poi di Repubblica, oggi editorialista, ha presentato in anteprima nazionale al Festival il suo ultimo libro, “L’anno del fascismo. 1922. Cronache della marcia su Roma” (ed. Feltrinelli) in un dialogo con il giornalista Wlodek Goldkorn, per molti anni responsabile culturale de L’Espresso. Presente per i saluti anche il direttore del Centro Pecci, Stefano Collicelli Cagol.
Il 1922, un anno la cui eco, all’indomani di una tornata elettorale che ha visto anche Prato virare decisamente a destra, è ritornata spesso nei commenti politici recenti. Cento anni dopo, ricostruire le vicende di quell’anno così denso e complesso ha ancora molto da raccontare. «Lungi dal voler o poter essere un lavoro storico o storiografico», come chiarisce lo stesso Ezio Mauro, il libro ha il ritmo e il taglio di un appassionato reportage nelle cronache e nei giorni frenetici che hanno portato alla marcia su Roma del 27 ottobre. Sullo sfondo, una politica e una monarchia incapaci di comprendere fino in fondo la nascente formazione guidata da Mussolini, e la sottovalutazione (fatale) della sua minaccia: una minaccia che contribuirà al progressivo smantellamento dello stato liberale.
Per Wlodek Goldkorn, uno dei principali meriti del libro è quello di restituire alla delicata fase del 1922 la sua complessità: «La storia non corrisponde a uno schema hegeliano», dice nel suo dialogo con l’autore, evidenziando la natura anche caotica e imprevedibile dei fatti e degli eventi che si susseguono, si rincorrono e incalzano la vicenda verso un esito che non era scritto a priori. Ma non è l’unico: anche l’attenzione posta allo sfatare il mito dell’ascesa al potere del fascismo per vie democratiche è per il giornalista uno dei punti di forza della narrazione di Ezio Mauro. La violenza riportata nella ricostruzione è sistematica, quotidiana, perfino costitutiva non solo politicamente, ma per la stessa identità di chi la perpetra. «Dobbiamo toccare coi manganelli i crani refrattari», ricorda Ezio Mauro citando direttamente Mussolini e riportando alcuni dati: solo tra il 1920 e il 1921 sono 4000 le vittime dei fascisti, 59 le case del popolo bruciate, 165 le camere del lavoro distrutte. Un’ondata di violenza che punta a soffocare la politica, a togliere terreno alle fondamenta dei partiti avversari e alla loro capacità di aggregazione.
Ed è attraverso quella violenza che si fa strada lo svuotamento dello stato liberale: l’antistato attacca lo Stato, e lo Stato tollera questa violenza: nessuno interviene a fermarla e il messaggio che arriva è quello di una sua legittimità al di fuori della legge, un risultato paradossale che condanna l’intero establishment liberale e la monarchia al declino. Si realizza quello strano ibrido costituzionale per cui il fascismo riceve un’investitura formale direttamente dal re, che resta al suo posto, eppure non lo fa per le tradizionali vie politiche ma con un ricorso massiccio al sopruso e alla violenza. Una forzatura che non è una rivoluzione, ma ha molto dell’insurrezione: sono occupate le prefetture, le stazioni, i telegrafi, in una cornice di assoluta irregolarità di cui però il movimento dei fasci ha bisogno, fuori dalla legge, perché al di sopra di essa. In quest’ottica, la marcia su Roma non è altro che la necessità di dare una cornice eroica ad un anno di eccezione democratica continua: arrivare al governo con un passaggio di testimone ordinario ed entro il dettato dello Statuto non è abbastanza per Mussolini e serve un atto in grado di sancire la vittoria in modo spettacolare. Nella ricostruzione di Ezio Mauro, lontano dall’essere il risultato di un colpo di stato, quello della marcia è solo il sigillo su un colpo di stato lungo un anno, strisciante e continuativo.
Inevitabile pensare al presente, sul quale Mauro è fermo: «Non è possibile fare paragoni. La sproporzione è evidente per i personaggi coinvolti e per il contesto. Oggi non c’è un Mussolini, ma non c’è nemmeno un Turati, uno Sturzo, un Giolitti. La stessa Europa, o quel concetto immateriale che chiamiamo Occidente, non sono la stessa cosa di allora». Eppure, nell’approssimarsi di questo anniversario, per il direttore «C’è da domandarsi, e ce lo domandiamo troppo poco, come mai gli italiani in mezzo a tante delusioni e frustrazioni, sopportando il peso di una crisi sanitaria, di una crisi di rappresentanza e di una guerra in corso, si rivolgano a quel deposito di memorie di una vicenda dittatoriale che ha sconvolto l’italia per vent’anni e non verso qualcosa di diverso». Per Ezio Mauro, le distanze prese dalle forze politiche rispetto a quel passato sono insufficienti e parziali. «Sono giudizi a metà, spesso tirati fuori con le tenaglie, non sono netti. È il risultato della banalizzazione del fascismo che è stata fatta negli ultimi anni e della demolizione dell’antifascismo come cultura di riferimento, che ha messo così in discussione le basi della Repubblica stessa, che sull’opposizione armata, spontanea, nazionale della Resistenza ha legittimato la Repubblica».
Il rischio principale non sarebbe allora tanto il ritorno del fascismo, quando la dispersione di quella cultura antifascista che sostiene l’ordinamento italiano, la sua Costituzione, il suo sistema politico, le sue istituzioni. «L’antifascismo resterà nella coscienza individuale, ma non sarà il collante collettivo su cui si fonderà la legittimazione della Repubblica. È la delegittimazione il rischio, non il ritorno del fascismo», dice Ezio Mauro in dialogo con il pubblico del Pecci. «La Costituzione, le istituzioni democratiche, sono nate da lì e sono state costruite apposta per essere un bilanciamento contro il rischio dell’uomo forte al potere. Se pensiamo al presidenzialismo, è il percorso inverso», aggiunge il direttore, «E non perché sia il male in sé: in paesi come la Francia funziona. Il punto è perché viene brandito, e come viene realizzato».