Espérance Hakuzwimana è una delle autrici ospiti del Centro Pecci Books Festival. Venerdì 7 ottobre alle ore 20,00 presenterà il suo romanzo d’esordio Tutta intera (Einaudi 2022), con lei dialogherà Giuditta Rossi (Bold Stories, “Color Carne”).
Il libro racconta la storia di Sara, una giovane donna nera adottata da bambina da una coppia bianca, due genitori pieni di amore ma incapaci di spiegarle come essere sé stessa. Un testo interessante che parla di razzismo in maniera non banale, dell’adozione raccontata dalla parte dei bambini e bambine che vengono accolti nel nostro Paese, del linguaggio delle nuove generazioni, della ricerca della propria identità.
Un incontro con una classe di adolescenti di seconda generazione farà cambiare lo sguardo della protagonista. “Tutta intera” parla di futuro, multiculturalità, con uno sguardo nuovo e urgente: “Siete i nuovi cittadini” dirà ai ragazzi di periferia a cui fa lezione ogni settimana, dall’alto della sua cultura bianca e borghese in cui è stata immersa fin da bambina. “Perché i nuovi? Siamo i prossimi!” le risponderanno loro.
Cosa volevi raccontare con la storia di Sara?
«Principalmente l’esigenza era quella di colmare l’assenza di una narrazione delle adozioni internazionali interrazziali da parte di quelli che sono gli unici protagonisti delle adozioni, i bambini e le bambine. La narrazione in questi ultimi trent’anni è stata tutta da parte dei genitori adottivi, sempre molto lineare: partendo dal desiderio di voler adottare, al racconto dell’iter spesso molto traumatico, fino alla famosa chiamata e all’arrivo del bambino o bambina. Per me crescere con quest’unica narrazione è stato molto destabilizzante, ma anche doloroso perché non c’era un punto di vista che potesse assomigliare il mio».
Nel libro si alternano pagine dall’infanzia e altre che si svolgono in una fase di passaggio con l’età adulta della protagonista. Perché questa scelta?
«L’infanzia è una fase cruciale che ti segna in quanto persona che sta al mondo, e quindi ho deciso di mettere le domande che si fanno i bambini adottati, le paure, i timori e soprattutto tutti i pensieri che la maggior parte delle volte tengono nascosti perché non hanno il coraggio di farle, perché hanno paura delle conseguenze, ma soprattutto perché non hanno le parole per poterle tirare fuori. Dall’altra parte ho deciso di raccontare anche una Sara adulta che proprio nella mancanza delle risposte rispetto a quelle domande che si è fatta si trova a dover riaffrontarle in qualche modo incontrandosi e confrontandosi con qualcuno che a livello estetico le assomiglia, come i ragazzini e le ragazzine di seconda generazione, ma che invece hanno un background storico, identitario, caratteriale e familiare completamente diverso dal suo».
Quali sono le mancanze che i genitori adottanti si portano dietro nell’affrontare queste dinamiche?
«La mancanza di consapevolezza, mancanza di fare un lavoro su sé stessi e sulla struttura biancocentrica in cui tutti siamo cresciuti, soprattutto se si tratta di un’adozione internazionale. Ci sono delle tappe della vita di una persona adottata che possono – non per forza, lo dico sempre – soprattutto quando il figlio ha il colore della pelle diverso, aprire delle voragini, riattivare dei traumi e mettere in crisi tutto il tessuto sociale abitato, che non comprende solo i genitori, ma anche la famiglia allargata, i nonni, gli amici, l’insegnante, i compagni di calcio. Quindi forse ricordarsi che questo percorso dura tutta la vita, nella costanza e nella bellezza, ma anche del dolore. Io faccio spesso incontri con genitori tramite gli enti adottivi: è importante parlare delle ombre, delle crepe, delle mancanze, del percorso di consapevolezza che è necessario fare. È importante per i genitori, ma più di tutti è importante per questi bambini e bambine che arriveranno. Sicuramente la differenza oggi è la quantità di strumenti che hanno a disposizione questi genitori rispetto a quelli degli anni novanta, come i genitori di Sara. E questo non fa tutto, ma fa tanto».
La tua è una scrittura politica?
«Inevitabilmente. Dal momento in cui ho deciso di raccontare storie estremamente legate alla rappresentazione, perché non c’erano storie che parlassero di me. Dopo aver finito tutti i libri che aveva la biblioteca del paese dove sono cresciuta, ho iniziato a domandarmi: “com’è possibile che di tutte queste cose che sto leggendo nessuna abbia un protagonista, una protagonista che mi assomigli?”. Questo desiderio di rappresentazione mi ha obbligato ad avere una riflessione sul corpo. E il corpo è politico, soprattutto se è un corpo che sta ai margini, che nella piramide dei privilegi sta alla base. Questo libro è politico, come tutto quello che ho scritto e scriverò, proprio per questa grande assenza e per le tematiche.
In questo libro non si parla solo di adozione internazionale, ma anche del centro e della periferia, del fatto che nelle nostre città a seconda della zona dove cresci hai più o meno possibilità di riuscire o sei condannato in qualche modo a vivere in una situazione di indigenza. Ci sono altri punti di vista e forse c’è bisogno di raccontarli senza avere la presunzione e l’arroganza di saper cosa spiegare, come rendere civili altre realtà, quando forse l’unica cosa che abbiamo a disposizione è l’ascolto, un ascolto che ci rende vulnerabili».