Aksel Fazio, pratese di 29 anni, ha deciso di passare parte delle sue vacanze quest’estate con una missione salesiana tra Ucraina e Polonia. Il suo lavoro nelle strutture di accoglienza è durata 20 giorni. Quello che segue è il suo diario al ritorno da questa esperienza iniziata lo scorso 15 luglio.

Il 24 febbraio 2022 la Russia comincia l’invasione dell’Ucraina.

Le prime settimane sono complesse: quasi sperduti nell’incredulità, comincia l’improvvisato movimento di profughi e volontari, ben prima dell’attivazione dei sistemi nazionali organizzati.

Mi sono imbattuto quasi per caso nella proposta di un progetto di volontariato, quando ancora le restrizioni covid in italia erano nel loro pieno: la congregazione dei Salesiani sta provando a costituire un gruppo di volontari per supportare i loro confratelli in Ucraina e Polonia, che già hanno strutturato corridoi umanitari e sistemi di distribuzione di beni di prima necessità. Erano richieste poche competenze specifiche, e tra mille incertezze e dettagli ancora non definiti, vengono riunite una decina di persone.

Era chiaro fin dall’inizio che sarebbe stato tutto molto improvvisato, nonostante i Salesiani abbiano lì una presenza salda e ben connessa con il territorio. La situazione era in continua evoluzione, e a noi veniva richiesto di essere adattabili, di metterci a disposizione, qualunque cosa servisse. Siamo 11 persone, 5 ragazzi e 5 ragazze e un diacono, tutti e tutte sotto i 35 anni.

Il ritrovo

Ci ritroviamo a San Tarcisio, a Roma. Lì cominciamo finalmente a conoscerci, e insieme ad altri due gruppi missionari destinati a Caracas ed Alessandria d’Egitto proviamo a condividere tra noi aspettative e preoccupazioni, esperienza pregresse e motivazioni. Partiamo con un pulmino e una macchina, caricando un po’ di donazioni e regali. Saremo ospitati da due case salesiane, a Cracovia e Oswiecim, il resto del lavoro continua ad essere indefinito. 

I 2.000 chilometri che ci separano dalla meta, con una tappa a Vienna, ci servono per consolidarci come gruppo. Arriviamo a Kracovia, dove nelle strutture dei Salesiani vengono ospitati 40 ucraini profughi, soprattutto donne e bambini. Vivono un’ala a parte della struttura, autogestiti nella quotidianità. Sono molto riservati e difficilmente riusciamo ad avere un contatto con loro, ma d’altronde non siamo qua per fare turismo della sofferenza. 

Kracovia

Nei primi giorni veniamo messi a sistemare il parco per i bambini: tagliare l’erba, pulire vetri, verniciare assi di legno e spaccare muri per costruire dei bagni. L’organizzazione di supporto ai profughi è ormai in funzione da mesi, ci viene spiegato, la situazione è gestita con efficienza e in questo momento non si registrano fenomeni emergenziali. 

Il nostro è più un supporto a chi concretamente aiuta gli ucraini, che non agli ucraini stessi. Kracovia è il centro di raccolta delle donazioni, beni di prima necessita come pacchi alimentari e materiale per l’igiene personale arrivati da tutta Europa. 

Conosciamo Don Marcin, il responsabile del progetto che settimanalmente attraversa il confine per distribuire le donazioni attraverso le case salesiane in Ucraina. Si spinge spesso fino a Odessa, Bucha e Kiev. 

A noi offre la possibilità di accompagnarlo in Ucraina, ma l’itinerario che ci propone rimane circoscritto ad una zona lontana dal conflitto. Dopo aver caricato un furgone e il nostro pulmino nel cuore della notte ci muoviamo. Attraversare il confine è veloce, d’altronde c’è poco interesse verso chi entra dal confine occidentale. 

Ternopoli

Raggiungiamo in mattinata la casa salesiana di Ternopoli, a circa 4 ore di macchina dal confine, che a sua volta porterà questa prima metà di scatoloni ancora più a est. Il tempo di una colazione veloce e ripartiamo verso Bibrika, vicino Leopoli, nostra meta e alloggio per questi giorni, dove scarichiamo quasi tutto. Bibrika è un paesino povero, solo marginalmente toccato dal conflitto. Abbiamo la fortuna di incontrare Don Joseph, che parla benissimo italiano, e ci accoglie come fossimo suoi nipoti. È un oratorio, e arriviamo durante il campo estivo; quindi, la struttura è piena di bambini che giocano tutto il giorno. Si respira un’aria gioiosa e serena.

Veniamo presto riportati alla realtà. Andiamo a Leopoli, dove visitiamo un’immensa struttura che ospita 120 profughi ucraini, di cui oltre la metà sono bambini orfani. 

Qua la guerra è arrivata con più forza, non solo nei segni evidenti della città, ma negli sguardi di incrociamo, nelle storie su chi è stato arruolato, di chi vuole rimanere ad ogni costo e di chi invece è scappato. La visita si conclude mostrandoci il bunker antiaereo, proprio sotto la palestra della scuola. È forse il primo vero contatto, seppur indiretto con la guerra. Certo, lungo la strada non mancavano i posti di blocco, le croci di frisia, le trincee e i sacchi di sabbia intorno a edifici e monumenti, i manifesti per l’arruolamento, mezzi militari lungo la strada, ma la percezione è completamente diversa. Nikolai, che accompagna don Marcin in tutte le spedizioni, è Ucraino, e rischia ogni volta che fa il passaggio del confine di non poter più tornare in Polonia, ci accompagna per Leopoli, in Ucraino Lviv, città dove ha vissuto a lungo. Ci tiene a mostrarci le cose belle che hanno, specifica ” Siamo altro oltre la guerra, vorrei mostrarvi la mia città di origine, ma si trova ad est di Kiev. Vi invito tutti da me quando finirà questa guerra”. 

Dopo la sosta, girando per le vie della città, visitiamo e consegniamo gli ultimi pacchi a Mariapolis, quartiere costituito da prefabbricati dove vivono circa 300 Ucraini sfollati.  Qui tocchiamo l’estremo: non si sentono appartenere a questi luoghi, ma non possono tornare a casa. È forte il senso di incertezza, il futuro indefinito, la paura e la stanchezza. Non ci sono muri o cancelli, si cerca di connetterla il più possibile al resto della città.

Essere lì

Passiamo la sera tra i brindisi di vodka ucraina e i racconti di Don josep, Don Marcin e Nikolai. La situazione si scioglie, e riusciamo a fare domande, a condividere percezione e sensazioni senza troppi filtri. Ci sentiamo abbastanza inutili, anche nella nostra funzione di supporto, oltre l’arroganza di voler fare i salvatori, non riusciamo a comprendere il senso di gratitudine che riceviamo. È Nikolai a chiarirci che per loro è importante il solo fatto di essere venuti fin lì. Che gli europei possano vedere cosa succede. Ci chiedono di essere testimoni. “Avete visto le persone che hanno perso tutto”, ci dice. In effetti Leopoli, ma come anche Bibrika e Ternopoli, non riescono certo a nascondere un conflitto armato, le contraddizioni e le spaccature che si generano tra le persone, chi resta e chi fugge, chi combatte. Ma c’è la voglia di vivere il più normalmente possibile, abituati ormai agli allarmi antiaerei. Ci hanno accolto tutti con sorprendente entusiasmo.

Don Josep ci racconta che nelle prime settimane la situazione era disperata, che faceva centinaia di km al giorno verso est, che erano in molti a chiedere di portare via mogli e figli oltre il confine, circa 25/30 persone al giorno, quando non c’erano mezzi. Spiega che si sentono soli, che la guerra era già cominciata nel 2014, che si combatte sulla loro spalle la guerra di altri, che c’è stata troppa indifferenza a problemi vecchissimi. Secondo lui non c’è spazio per la mediazione, perché la pace russa non è la pace per loro, che hanno già pagato un prezzo troppo grande. Irpin e Bucha sono l’esempio che non è una possibilità percorribile. Nonostante il dolore e la rabbia, rimane la lucidità per provare empatia anche verso i russi, e distingue l’individuo delle azioni del governo. Che hanno scelto attentamente soldati che vivono in territori sperduti della Russia, anche poco connessi anche alle grandi città russe. Ci salutiamo il giorno dopo giocando con i bambini, e loro ci invitano sinceramente a tornare.

Il ritorno in Polonia

Ritornare il Polonia non è semplice, trovando un dogana di confine chiusa , ci mettiamo un giorno intero. Gli ultimi giorni a Cracovia terminano con un pranzo insieme agli ucraini, richiesto da loro. Qui a gesti e con un po’ di inglese riusciamo a scambiare qualche parola, e ogni conversazione si conclude con un grazie in ucraino: “Dyakuyu”.

Ci Trasferiamo al secondo centro di accoglienza, ad Oswiecin, (n.d.r. Auschwitz in tedesco). Anche qui sono ospiti altri 30 ucraini: qui però è stato più facile avere un contatto, soprattutto con i più giovani. Le giornate sono ancora scandite da lavoretti di manutenzione della struttura. È una scuola professionale, un edificio immenso, e il nostro contributo è meno richiesto che a Kracovia; questo ci permette di avere più tempo per giocare insieme ai ragazzini ucraini, e se di mattina lavoriamo, di pomeriggio giochiamo a basket e calcio con loro.  

Appartenenza

Siamo andati per dare una mano, per metterci a disposizione, sperando di poter essere d’aiuto. Abbiamo ricevuto noi moltissimo, a partire da un’accoglienza fuori dal comune, attraverso le persone che cercavano un contatto con noi, un legame. Un gesto, un saluto o un sorriso. Si sentiva la pesantezza e la sofferenza, ma era accecante la voglia di mostrare che c’è altro, e volerlo condividere.

Quello che speriamo di portarci indietro, è questo senso di appartenenza oltre i confini e la lingua, oltre il dolore e le separazioni. Prima delle persone che siamo andati a incontrare, siamo stati noi a non esserci sentiti soli.