stefano collicelli cagol
Foto di Pratosfera

Stefano Collicelli Cagol è direttore del Centro Pecci da poco più di sei mesi. Quarantaquattro anni, ha un curriculum di tutto rispetto e idee molto chiare sulle strade che il museo deve intraprendere in futuro. Lo abbiamo incontrato una mattina di luglio nel bistrot del Centro Pecci.

Lo scorso autunno, il presidente Bini Smaghi disse che il Pecci è il museo d’arte contemporanea più costoso d’Italia e quello con meno visitatori. Quindi è inevitabile cominciare chiedendole come si fa a portare più gente al Centro Pecci, come si fa a ricollegare il centro al tessuto cittadino e anche se per farlo non servano eventi e iniziative un po’ più popolari.
«Ha qualcosa di preciso in mente?».

Pensavo ad una o più mostre con un richiamo maggiore di quelle fatte finora.
«Ah, credevo a qualche tipo di sagra».

No, no. Rimaniamo nell’ambito dell’arte.
«Prima di tutto non esiste un museo d’arte contemporanea che faccia i veri numeri. Di Moma ce n’è uno solo, costa 25 euro e adesso credo anche di più. Sicuramente quello in cui ci muoviamo è un contesto preciso, non siamo né gli Uffizi né il Colosseo che sono invece musei che contano su un tipo di arte che è entrata nel nostro immaginario fin da bambini. Mia madre, quando le dissi che volevo lavorare nell’arte contemporanea, mi disse “ma con tutti i tesori che abbiamo in Italia…” Perché effettivamente l’arte contemporanea è veramente vista come avulsa dalla storia del nostro paese e invece è fondamentale far capire che è intrinsecamente legata a noi, al nostro tempo, e anche se sembra così avulsa in realtà è quello che ci permette di testimoniarci al futuro, perché è quello che facciamo adesso e che lasceremo, è una bellissima traccia che lasciamo del nostro passaggio in questo mondo, così come noi possiamo contare su quello che hanno lasciato altri. Per me è una bella sfida e una bella missione: ci muoviamo dentro una storia di bellezza e di complessità. Quando Brunelleschi inventa la prospettiva e la rende uno strumento, cambia radicalmente il modo di vivere, non solo il modo di fare arte. Con la prospettiva siamo stati in grado di controllare un territorio e quindi anche tutta l’idea di stato-nazione, se ci pensiamo, cioè il controllo del territorio da parte di un’entità organizzata statale, nasce proprio dal momento in cui riusciamo a portare la tridimensionalità di quello che vediamo alla bidimensionalità del foglio. In questo modo nascono le cartine, le esplorazioni e anche tutte le sperequazioni e i disastri che ne sono conseguiti. Però attraverso l’arte crei strumenti potenti semplicemente spostando il modo in cui ti interfacci con la realtà e questo, in una regione come la Toscana, è ancora più importante sottolinearlo. Per questo per me è fondamentale difendere la complessità delle ricerche di chi fa arte oggi e anche la libertà di sperimentare, perché da questa possibilità che noi diamo all’artista come elemento della società, di muoversi in maniera libera e di sperimentare anche considerando un potenziale fallimento, può uscire poi qualcosa di formidabile, come uno strumento che cambierà e ci permetterà di ripensare la nostra posizione nel mondo e anche come ci relazioniamo al mondo. E quindi penso che quello d’arte contemporanea sia il museo cui debba essere lasciato un certo grado di possibilità di esplorare linguaggi e immaginari che non immediatamente risuonano con quello che è più comune nella nostro panorama simbolico. Perché appunto le madonne, le sacre conversazioni ormai le riconosciamo, ma sono sempre più complicate di quello che sembrano perché contengono molti elementi e molti significati. Per tornare alla domanda, per me è fondamentale quello che stiamo facendo: riposizionare il Centro Pecci non più come qualcosa che si basa sulla mostra-evento ma come un luogo che deve tornare ad essere vissuto quotidiamente da chi è nel territorio prima di tutto e poi da chi viene da fuori grazie ad eventi espositivi che possono essere di grande richiamo. Non dobbiamo però dimenticare che la progettualità è una cosa fondamentale. La mostra-evento, abbiamo anche dei vicini che le fanno e le fanno con successo, oltre a richiedere un capitale di investimento che ancora non c’è ma al quale penso si possa arrivare, è un percorso che dev’essere costruito. Quindi anche le mostre-evento devono essere inserite nel percorso dell’istituzione, e penso che questo percorso lo abbiamo appena iniziato. Per esempio, il primo atto fondamentale che abbiamo fatto quest’anno è stato proprio quello di riproporre la nostra collezione attraverso però un lavoro di estrema raffinatezza nel decidere le modalità di esposizione delle opere, grazie alla collaborazione con FormaFantasma, che sono un duo di designer famoso a livello internazionale (hanno appena allestito la mostra principale della Biennale di Venezia ndr)».

Che mostra sarà quella della collezione del Pecci?
«Da quando è nato, il Centro ha costruito una propria collezione che adesso riproponiamo al pubblico per la prima volta in maniera permanente e con un allestimento ambizioso, realizzato appunto dai FormaFantasma, e che di nuovo coinvolge la città di Prato e la sua imprenditoria. La mostra sarà un evento della museografia italiana e internazionale (sarà inaugurata in autunno ndr), visto che nessuno ha mai chiesto a due professionisti di allestire una collezione d’arte contemporanea, ma sarà anche un luogo di bellezza, dove voler stare e dove voler tornare perché ci stai bene, ci vuoi portare i figli o i nipoti, ci puoi fare cene di lavoro e molto altro. Il Centro Pecci diventerà un luogo unico, di grande qualità, al servizio della cittadinanza. E lo spazio interno, che è gigantesco (3000 mq ndr), potrà essere differenziato. Ci sarà uno spazio per le grandi mostre, uno spazio per progetti che guardano a come la tecnologie stanno trasformando il nostro rapporto col corpo e la realtà e uno più piccolo che voglio diventi uno spazio per la valorizzazione delle nostre collezioni e dei nostri archivi. Adesso, per esempio, la mostra Schema (fino al 9 ottobre 2022 ndr) racconta uno degli episodi più importanti a livello internazionale della Toscana, è un patrimonio ricevuto in comodato che è importante valorizzare. Fare un lavoro di differenziazione degli spazi espositivi, che abbia anche cadenze programmate, sicure, ti permette poi di comunicare meglio con il pubblico e di creare una relazione molto più forte con la stampa e con chi deve far conoscere il museo e le sue attività».

Ha parlato di imprenditori e di imprenditoria. Com’è il rapporto con gli imprenditori pratesi?
«L’aver voluto creare il primo edificio appositamente pensato per l’arte contemporanea testimonia l’esistenza di un legame molto forte tra arte e imprenditoria e anche un’idea precisa di come viene vissuto a Prato l’essere imprenditori. Mi piace questa idea della proiezione nel futuro, basti pensare ai campionari che con due anni di anticipo devono intercettare il gusto di chi deve poi creare la moda. Quindi quando sottolineo che il Pecci è un centro e non un museo, è proprio per questa volontà differente di porsi rispetto alla temporalità della cultura, un aspetto che affonda le proprie radici nel passato. Miriamo a creare relazioni con il tessuto culturale ma non dimentichiamo che la nostra origine ruota intorno ad una associazione di imprenditori e vogliamo riconnetterci a quel substrato estremamente attivo e visionario. Lo dico sempre, io vengo dal Veneto ma non c’è un Centro Pecci in Veneto, un posto come questo non c’è in nessuna altra parte d’Italia. Quindi con i limiti di un imprendtiore, e cioè mille cose a cui pensare e una strategia sua da gestire, la cosa per me fondamentale è individuare dei progetti che diventino importanti anche per loro. Una sinergia tra Centro Pecci e imprenditoria è la chiave fondamentale per il futuro. E non si tratta più di chiedere soldi per il logo come succedeva una volta, si tratta invece di costruire qualcosa insieme, qualcosa che abbia senso per me e che abbia senso anche per te. Questa è la dimensione del futuro e forse da questo punto di vista è un cambiamento generazionale rispetto a come veniva fatto una volta il fundraising».

Il Pecci è nato per iniziativa di un imprenditore ma il coinvolgimento degli imprenditori pratesi credo sia durato poco.
«È anche cambiata la situazione dell’imprenditoria pratese, c’è stata una crisi molto forte. Però secondo me il Centro Pecci è un luogo dove ha ancora senso investire, per questo è così importante stabilire per la prima volta la collezione anche dal punto di vista dell’assetto. E l’altra cosa fondamentale è continuare a sottolineare l’interdisciplinarietà delle nostre attività ribadendo gli interventi in questo luogo anche del teatro, della danza e della moda. Da gennaio le collaborazioni sono già molte perché per me è importante creare delle relazioni con la città, e queste relazioni poco a poco diventeranno più visibili anche alla cittadinanza».

Il bilancio dei primi sei mesi è quindi positivo.
«Per me è positivo perché abbiamo lavorato molto e in armonia con molti soggetti differenti, dalla politica all’imprenditoria al pubblico, che ci ha dato sempre ottimi riscontri. Mi rendo conto che ancora non abbiamo molte cose fuori. Però, per esempio, la mostra “Il giardino dell’arte” (fino al 24 luglio ndr) ha dei capolavori assoluti, ci sono delle opere strepitose, ci sono proprio dei momenti artistici che non passeranno molto facilmente dalla Toscana un’altra volta. Poi credo molto anche nella musica: i concerti e i dj set gratuiti. Ci piace offrire di nuovo una qualità di ricerca che sia gratuita per chi viene a visitare e a vivere il Centro Pecci: è una missione anche quella di portare nuove sperimentazioni alla portata di tutti. Il Pecci ha sempre fatto cose molto sperimentali e il Centro Pecci Summer Live è stato un momento in cui la ricerca è stata fondamentale. Abbiamo voluto fare ogni giovedì un dj set per sottolineare come la pratica del dj sia diventata sempre più una pratica artistica. Anche il far ballare, il voler far muovere i corpi in uno spazio fisico legato all’arte contemporanea, non semplicemente farli muovere in maniera silenziosa all’interno di sale che devono essere molto ovattate, ti consente di far esplodere il tuo corpo, le tue pulsioni, i tuoi ormoni. Per me era molto importante, ed è questo che la scena queer del dj set che abbiamo intercettato questa estate poneva al centro della sua ricerca. Non più quindi corpo-mente ma un corpo che diventa anche un corpo-desiderante».

Vive in centro storico. Come si trova?
«È una dimensione quella del centro di Prato che non conoscevo. Conoscevo la città come distretto industriale, come la più grande comunità cinese ma poi, una volta arrivato, mi son reso conto che ha un bellissimo centro e un contesto museale che non ha niente da invidiare ad altre città della Toscana. Ovviamente Firenze è a parte. Anche voler riconnettere il Centro Pecci alla città è importante perché non si conosce Prato come luogo da visitare. Invece è una città che ha un Duomo stupendo, dove c’è anche un contemporaneo diffuso, c’è un’archeologia industriale che è pronta a partire e dove c’è anche una storia di urban landscape urbanism improntato a una ricerca internazionale su come le città possono diventare luoghi di rilettura del paesaggio in chiave ecologia. Prato su questo è sempre stata all’avanguardia. Ci sono molte peculiarità di questa città che non sono conosciute, così come non è conosciuta la semplice bellezza di starci, di viverci. Qualcuno mi ha detto di andare a Firenze, però ho scoperto che mi piace molto stare qui, anche perché al Centro lavoriamo in modo intensivo. Essere fisicamente in una città significa viverla nel suo tessuto, sentirne gli umori. Per capire in che contesto sto lavorando è necessario viverlo. Sicché quando ho dovuto decidere dove andare a vivere non ho avuto molti dubbi».