mauro ermanno giovanardi

Mauro Ermanno Giovanardi, voce dei La Crus e cantautore, sarà a Prato per Settembre Prato è spettacolo Limited Edition venerdì 4 Settembre alle 21,30 nel Chiostro della chiesa di San Domenico, con lo spettacolo “Ho visto Faber volare e altre storie” (Biglietti)

L’occasione giusta per fare una chiacchierata sul concerto e sul rapporto di Mauro Ermanno Giovanardi con i grandi del passato e con i suoi contemporanei, ma anche sullo status di musicista nell’Italia alle prese con l’epidemia e sul rapporto con tecnologia e nuove generazioni.

Siete stati fermi per forza per mesi, com’è stato ripartire?
“Bello ed emozionante, sembrava di essere stati assenti per anni. Ho già fatto quattro concerti e si percepisce che la gente ha voglia di condividere le emozioni e di uscire, ha voglia di tornare alla normalità per cui, anche se sono sempre concerti piccoli, sono tutto molto calorosi”.

Com’è la situazione in Italia per i musicisti?
“Praticamente inesistente: non esistiamo come categoria. Nonostante abbia pagato un casino di tasse in questi 25 anni non siamo riconosciuti e non c’è tutela. Credo che “non esistiamo” sia la parola giusta. Io per fortuna ho la partita IVA quindi guadagno anche da li, ma chi lavora solo in cooperativa è nei guai. Anche chi ci governa non ha una cognizione che dietro un concerto ci siano altre X persone che lavorano: non c’è solo l’artista, come succede nell’immaginario collettivo. Nell’immaginario collettivo chi fa questo lavoro è un ricco privilegiato, ma in realtà quelli davvero ricchi e privilegiati sono pochi: chi ha fatto la scelta di non fare la canzonetta estiva si deve fare un mazzo tanto, e in più dà lavoro ad altra gente. Chi fa palchi live e tutto in playback ha poca gente che lavora, ma i veri concerti hanno musicisti, tour manager, maschere, fonici e facchini, un concerto crea una filiera con un sacco di altre persone, e soprattutto le maestranze hanno subito tantissimo perché come categoria non esistiamo”.

C’è anche il fatto che in Italia il musicista, o chi lavora come artista, non viene visto come lavoro.
“Si, ti chiedono: “Ok, ma che lavoro fai davvero?”. Sembra un hobby quello di fare il musicista, mentre per chi ne ha fatto una professione farsi il mazzo è necessario: puoi pagare un sacco di contributi, ma se non raggiungi i giorni lavorativi non riscatti quello che hai pagato”.

Nei periodi di crisi agli artisti viene chiesto di esprimersi per far stare meglio tutti, ma poi l’arte viene difficilmente sostenuta dopo.
“Esatto: quanta musica si è consumata nel lockdown che ha fatto in modo che la gente non andasse fuori di testa? Poi noi però non esistiamo come categoria, ed è una cosa un po’ fastidiosa”.

Parliamo un attimo di Prato, perché tu arrivi in città con “Ho visto Faber volare”.
“Si: si chiama esattamente “Ho visto Faber volare e altre storie”, perché in realtà una parte dello spettacolo è dedicata a Fabrizio, ma poi ci sono anche miei pezzi e l’ultima parte è dedicata a “La mia generazione”, il mio ultimo disco e tributo agli anni ‘90 con pezzi dei Bluvertigo, Cristina Donà e Marco Parente”.

Come si legano tutte queste parti dello spettacolo? C’è un filo conduttore o sono proprio tre parti distinte della serata?
“Si legano perché in realtà ho sempre nutrito sia la mia anima d’autore e compositore che quella da interprete, sin da quando ho iniziato a cantare. Ho lavorato tantissimo sull’espressione e come riprendere un pezzo di un altro artista, come è successo in “La mia generazione”, il nuovo disco: se avessi voluto fare un disco di cover ci avrei messo 10 giorni, se avessi voluto fare un disco di inediti ci avrei messo 8 mesi, per fare questo disco ci ho messo un anno e mezzo. Anche quando faccio un pezzo di un altro, e odio chiamarlo cover, c’è un lavoro enorme dietro: dalla ricerca dei brani con i testi che più mi calzano, ricucire tutto l’arrangiamento e la partitura musicale…rifare il pezzo uguale non è arte, fai cover band. La reinterpretazione di un certo spessore prevede che tu mantenga lo spirito originale ma ne faccia una versione tua, come se fosse un brano scritto da te, dandogli nuova vita e rispettando l’originale. E’ un lavoro molto delicato e molto importante, e anche i pezzi di Fabrizio che farò hanno un sapore un po’ morriconiano. Questo è quello che lega le varie fasi dello spettacolo”.

Domanda più precisa: ogni volta che dico a qualcuno che vado a vedere qualcuno che suona De Andrè mi viene sempre detto “Madonna che coraggio”. Come lavori su De Andrè Mauro Ermanno Giovanardi?
“Esattamente come quando prendo un pezzo di Tenco o degli Afterhours. Lo stesso rispetto. L’unica cosa di cui mi preoccupo è di portare un leggio con i pezzi sul palco perché quello che davvero non ti puoi premettere è di sbagliare. Lo faccio così mio che alla fine diventa solo un bel pezzo da cantare”.

Anche perchè Johnny Cash ha suonano i Nine Inch Nails, quindi siamo tutti un po’ più liberi.
“Ricucendosi addosso in modo sensato e corretto ogni brano puoi davvero fare qualsiasi cosa: io i dischi di Johnny Cash li ho consumati: sono del ‘62 e mia mamma non aveva nemmeno 19 anni quando sono nato e, come tutte le ragazze del periodo, aveva quintalate di dischi. Mi diceva che ero sempre attaccato al mangiadischi e, tra i pezzi che sentivo di più, c’erano Bang bang e C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones. Avevo cinque o sei anni. Appena ho sentito Solitary man di Johnny Cash sono rimasto fulminato, perché mi ricordava davvero qualcosa…e alla fine ho capito che era “Se perdo anche te” di Gianni Morandi, il lato B di “C’era un ragazzo”, perché in quel periodo c’era la moda dei cantanti italiani che rifacevano pezzi stranieri in italiano. Io poi ho rifatto “Se perdo anche te”, un po’ più alla Johnny Cash. Alcune sonorità me le ricordo per questo, è una specie di ricordo lontano, dentro di me”.

“Negli anni ‘80 i miei artisti preferiti erano Cash, Leonard Cohen, Nick Cave, Tom Waits, il post punk e la new wave e, come tanti della mia generazione, avevo saltato a piè pari la musica italiana o quasi…la madre della mia fidanzata di allora mi disse “Dovresti sentire Luigi Tenco, che ha un modo di cantare triste come il tuo”. Mi fece sentire “Angela” e ci fu il colpo di fulmine: ma allora si può fare!
Lui parlava d’amore, ma aveva un punto di vista letterario e dell’immaginario come poteva essere un pezzo di Cave o Cohen. Da li è scattata la voglia di riscoprire cosa mi ero perso: Tenco, Ciampi, De Andrè, Gaber, e la voglia di far convivere due mondi all’apparenza distantissimi, fra il recupero della canzone italiana d’autore e il background musicale che avevo. Uno dei lasciti più importanti dei La Crus è quello di aver fatto riscoprire pezzi come “Il vino”: un sacco di ragazzini venivano a farsi firmare i dischi dicendo “Ti ringrazio tantissimo, perché tramite le vostre versioni mi sono comprato i dischi di Ciampi e Tenco”. L’ultimo brano dell’ultimo concerto dei La Crus, al teatro degli Arcimboldi di Milano, è stato proprio “Il vino”, con Nada: mentre 3000 persone cantavano il ritornello Nada mi ha detto “Hai fatto un regalo bellissimo, perché Piero non ha mai avuto 3000 persone che cantavano con lui”. E’ uno dei nostri lasciti più importanti e, quando ti confronti con dei mostri così, Fabrizio compreso…anzi, Fabrizio soprattutto, perché da un punto di vista vocale era pazzesco. Se ne parla sempre da un punto di vista poetico, ma nessuno dice mai che era un cantante della Madonna. La versione baritonale di Mina”.

https://www.youtube.com/watch?v=2Gz-a49WoAI

Ripensandoci questo significa che avete portato con voi l’eredità di altri musicisti: è una specie di catena continua che parte da chi ha fatto musica prima e si trasmette a chi, magari, farà musica dopo.
“Diciamo che per tanto tempo è stato così, per le nuove generazioni non credo funzioni più. Quando ero ragazzo, anche se sentivo new wave e post punk, mi andavo a comprare un sacco di libri di musica: come cultura musicale parto dagli anni ‘50 e arrivo fino al decennio scorso. Ero curioso di sapere la storia del rock. Secondo me i ragazzini oggi non sono interessati: hanno quel tipo di cultura molto smart e non conoscono la musica. Si deve fare la distinzione dal pre internet al post internet, che ha cambiato un sacco di regole, e negli ultimi anni i social hanno ulteriormente cambiato il costume: c’è una cultura fatta di ora e subito, quindi non so quanti ragazzini, che ormai spesso sentono solo hip hop e trap, abbiano una cultura musicale che parte dalle radici. Forse un po’ di cultura di hip hop storica, ma molto poco. Non so se questa catena, fatta di imparare a costruire una canzone partendo dai Doors o De Andrè, continuerà: i ragazzi secondo me sono sempre più a mezzo fra un musicista e uno youtuber. Tutto dev’essere subito e adesso, e non mi sembra che ci sia interesse a scoprire cosa c’era prima. Le basi. Ho un amico che insegna a scuola, e i ragazzi delle superiori non sanno chi sono i Nirvana, e non gliene frega nulla di sapere chi sono i Nirvana: figurati Doors o Led Zeppelin, Beatles o Rolling Stones. Credo che ci sia un approccio altro: non interessa cosa c’era prima, e sembra che il livello di cultura medio sia molto basso, in generale. I talent, insieme all’avvento di internet e dei social, o di Spotify, hanno devastato la musica così come noi l’abbiamo conosciuta e fatta per anni”.

Forse dipende anche dal fatto che il consumo musicale è diventato talmente veloce che non c’è tempo di fare un disco, ma in questo modo un artista, se volesse farlo, non può nemmeno creare niente di nuovo.
“E’ tutto usa e getta, dev’essere tutto cotto e mangiato in tempi brevissimi. Anche su Spotify si dice che gli artisti devono produrre pezzi continuamente, che se fanno un disco ogni anno è un processo troppo lento e la gente si dimentica di loro. Quella roba è una truffa legalizzata, ma non tanto per il fruitore: chi la produce riceve lo 0,00004 di ricavo. Per ricevere qualche soldo i tuoi pezzi devono avere 200.000.000 di ascolti. Qualche anno fa il chitarrista dei Portishead, che ha cofirmato tutti i brani e ha venduto milioni di dischi, ha ricevuto un assegno da Spotify di 2.400 sterline. Come fai a produrre un brano ogni settimana? Se sei un artista che per fare un pezzo deve coinvolgere almeno 3 o 4 musicisti, studio di registrazione, fonico…con cosa li paghi, con lo 0,00004? Fare questo lavoro con cura, amore e passione vera sta cominciando a diventare impossibile. Spesso dico “Devo iniziare a pensare a un piano B”! (ride)

Ultima domanda: se tu dovessi dare un consiglio a chi inizia ora a fare musica, a mettere su una band, cosa gli diresti?
Ma sei sicuro? (ride)