Luogo inedito e altamente suggestivo per la terza giornata del Festival delle Colline 2020: il gineceo della Villa Medicea di Artimino, villa dalla quale il Festival mancava dagli anni 90, quando fu teatro dei concerti di Cassandra Wilson e delle Zap Mama. Un luogo per cui una definizione abusata e retorica quale quella di “splendida cornice” non è spesa a caso. Una terrazza sulla campagna toscana come ce ne sono poche, e sullo sfondo, la villa dei cento camini. In questo luogo benedetto da ogni divinità si è svolto il terzo dei doppi concerti del Festival, con la consueta formula del doppio artista / doppio set. Un concerto sotto il sole delle 19.30 che ancora abbaglia, e uno a tramonto avvenuto, alle 21,30, con poche e soffuse luci.
I due artisti che si sono passati per due volte il testimone sono Alessandro Fiori e Paolo Benvegnù. Due esponenti della canzone d’autore, in questo momento storico entrambi nella scuderia Black Candy, con ben oltre vent’anni di carriera alle spalle, che, seppure con numeri diversi, hanno sempre raccolto meno di quanto abbiano seminato. Parte Alessandro Fiori, fresco di scrittura di un nuovo disco non ancora realizzato, che in un impeto di coraggio ci ha fatto ascoltare, dal vivo, per la prima volta. E le due audience sottoposte all’esperimento hanno reagito in modo autenticamente entusiasta – e non poteva essere altrimenti.
Il lockdown per Alessandro Fiori è stato foriero di nuova linfa vitale e creativa. C’è chi reagisce alla chiusura esaltando i toni azzurri che si trovano dentro di sé – ha raccontato dietro al suo piano elettrico – e chi reagisce spaccando tutto. Lui, il primo caso. Ma si tratta di canzoni molto ispirate, con continui guizzi verbali e musicali. A volte si vola davvero molto alti, dalle parti di Gino Paoli, non disdegnando quei momenti d’ironia e d’assurdo che non hanno mai abbandonato la scrittura di Alessandro Fiori, fin dai tempi dei Mariposa. Qualche esempio: il quadretto intimo e tecnologico de “Il tuo compleanno”, o la struggente canzone dedicata alla nonna, in lingua sarda, fino al commovente tributo a Mirko dei Camillas, morto poche settimane fa a causa del Coronavirus. Non vedo l’ora di ascoltarle su qualche supporto, liquido o tattile, questi piccoli capolavori. Grazie, Alfina de’Rossori (come ti anagrammi su Facebook) di questo regalo che ci hai fatto.
Il lockdown ha preso di sorpresa anche Paolo Benvegnù: il suo ultimo disco “Dell’odio dell’innocenza” era fuori il 6 di marzo, in concomitanza con l’annuncio della quarantena. Probabilmente l’ultima uscita discografica prima dello stop. Ha fatto appena in tempo a fare un piccolissimo tour promozionale prima del fermi tutti. Quindi, anche per lui, questa è la prima volta che le ascoltiamo dal vivo, quelle canzoni.
Quelle di “Dell’odio dell’innocenza” sono canzoni che nascono chitarra e voce, e qui praticamente rimangono tali, con arrangiamenti che ne esaltano la semplicità e l’essenzialità. E dire che si era inventato anche un bel giochino, per questo lavoro: quello di un disco trovato per caso, nella cassetta della posta – a cui nessuno ha creduto, avvezzi all’ironia di Paolo in tutto ciò che è laterale alla musica. E anche il set di ieri sera era come diviso in due parti: le parole cantate, autentiche pietre (per citare uno dei pezzi più ispirati dell’ultimo disco) che contrastavano con l’assoluto scazzo delle presentazioni, in cui ci si inventavano saghe norvegesi, o pezzi scritti da Antognoni e Brahms, o i suoi punti di riferimento passati e futuri nelle persone del suo maestro elementare (e questa non è una cosa inventata, in quanto all’epoca degli Scisma intitolò anche una canzone a quel maestro, che rispondeva al nome di Giuseppe Pierri) e di Mike Bongiorno. Un giochino che tutti coloro che seguono Benvegnù conoscono bene, quasi per stemperare certe profondità delle canzoni che non vengono mai meno.
Nella breve scaletta non c’erano solo i pezzi nuovi: c’era anche Il Mare Verticale, La schiena, Love is Talking, ed anche una cover – cosa abbastanza inusuale per Paolo Benvegnù: quella Hurt del Nine Inch Nails nobilitata anche da Johnny Cash. Non c’è stata la canzone che chiude l’ultimo disco, quella intitolata “Infinito Alessandro Fiori”. Ma forse sarebbe stata una scelta troppo scontata.