Nei quattro-cinque giorni del Settembre, almeno nelle ultime edizioni organizzate da Fonderia Cultart, c’è sempre una serata dedicata al doppio concerto di quello che potremmo chiamare “Nuovo Rock Italiano”. Una serata in cui due gruppi suonano insieme, accostati per affinità o per contrasto. O per tutti e due. La volontà di creare una serata che sia un unicum presentando due tra le realtà più significative del panorama italiano, una scommessa che si rinnova, vincente, anno dopo anno.
L’anno scorso la serata era occupata da Afterhours e Luci della Centrale Elettrica, in cui i secondi fecero un concerto molto più solido e convincente dei primi, che arrivarono a Prato un po’ stanchi e appannati. Nel 2016 era la volta di Verdena e Marlene Kuntz, in cui i secondi suonarono in apertura (a dispetto della loro storia) e i primi si produssero in un vero e proprio atto di terrorismo sonoro. Quest’anno tocca agli Zen Circus e agli A Toys Orchestra. Insieme. E anche se la serata dal punto di vista numerico rischia di avere un’eco minore rispetto a Caparezza, ai Darkness o al colosso Blonde Redhead – dEUS – Einstürzende Neubauten, non è una serata assolutamente da sottovalutare.
Cosa hanno in comune, gli …A Toys Orchestra e gli Zen Circus? Volendo trovare un’affinità cercata col lanternino, entrambi hanno collaborato e fatto un tour con Nada. Ma quello delle affinità e divergenze è un giochino sterile. Anche perché entrambi i gruppi arrivano a Prato in un momento molto significativo della loro carriera: quello che un tempo si identificava come il momento della maturità artistica.
Unanimemente, le loro ultime prove discografiche (sì, entrambi i gruppi fanno ancora album, non si limitano a sfornare video in rete ma costruiscono lavori complessi in cui hanno qualcosa da dire nello spazio dell’ora di ascolto. È una cosa vecchia, ma per qualcuno funziona ancora) sono state giudicate come la migliore del loro percorso artistico. E non è poca cosa.
…A Toys Orchestra
Gli …A Toys Orchestra (con i tre puntini prima dell’articolo) di dischi ne hanno fatti sette. Il gruppo di Agropoli (ma naturalizzato bolognese) canta da sempre in inglese (in Italiano ricordo solo una particolare versione di “Celentano” del 2010). I riferimenti sono moltissimi, da Bacharach agli Arcade Fire, dai Beatles al synth-pop degli anni ’80.
Enzo Moretto, deus-ex-machina della formazione, da sempre voce maschile della formazione, affiancato dalla voce femminile di Ilaria de Angelis, è uno dei grandi autori ancora non scoperti e non sufficientemente valorizzati del nostro panorama. L’ultimo disco è uscito ad aprile. Si chiama “Lub Dub”, un titolo onomatopeico che richiama il pompaggio del sangue al/dal cuore. Non il battito, qualcosa di più interno. E con questo disco la formazione, abbandonando parzialmente certe eco indie che hanno fatto anche la loro fortuna (i due dischi del 2010 e del 2011, Midnight Talks e Midnight Revolution, sono stati insigniti di fior di riconoscimenti critici, miglior disco, miglior tour, etc…) decidono di abbassare i toni e di fare un disco in bianco e nero, a partire dalla copertina: malinconico, intimista, profondo. Probabilmente il migliore della loro carriera. E con questo fardello di bellezza ed eleganza arrivano a Prato. Sono curioso di vedere come certe atmosfere si concilieranno con il live. Curioso ma non dubbioso.
Zen Circus
Gli Zen Circus, da Pisa, sono al loro decimo disco. Assurdo e inutile presentarli, a questo punto della loro carriera. Sono l’ultima grande band generazionale. Più invecchiano e più migliorano. Più vanno avanti e più acquisiscono consapevolezza e autenticità.
Alfieri di un cantautorato rock senza fronzoli, diretto come un pugno nello stomaco, in questo momento è l’unica band che parla ai ventenni come ai quarantenni. Appino è uno dei più grandi raccontatori di storie e di inquietudini che abbiamo. E la sua grandezza è che la sua generazione (la nostra generazione – lo ripeto: ci racchiude tutti, dai venti ai cinquant’anni) riesce a cantarla senza retorica e a farcela cantare in coro.
Gli ultimi dischi sono un crescendo di scrittura e di popolarità: “Canzoni contro la natura”, “La terza guerra mondiale” e soprattutto l’ultimo “Il fuoco in una stanza” non hanno debolezze o cali di tensione. Per quanto mi riguarda, riescono a farmi entusiasmare e a farmi piangere, quando toccano certe (universali) corde sul piano privato e familiare. In pochi ci riescono, con un crostino come me. Probabilmente nessun altro, dal 1989 in poi.
“A dieci spacchi la prima chitarra / a venti senti odore di guerra / a trenta arriva la prima ambulanza / l’adolescenza intorno ai quaranta“. Una vita sintetizzata in un verso. O il finale serrato di “Il mondo come lo vorrei”, un grande momento di poesia rock. Una razza in estinzione, quella del rocker con una sensibilità. Forse sono rimasti solo lui e Giorgio Canali. Ecco perché aspetto a gloria il concerto degli Zen Circus. Per cantare a squarciagola e per piangere. Se vi sembra poco.