Sergio Caputo sarà venerdì 6 luglio prossimo alla Villa Medicea di Poggio a Caiano, in occasione di un Festival delle Colline che porta come hashtag il reinventato motto latino “Video ergo sono”: Video, quindi suono. Immagini e musica, strettamente interlacciate tra di loro. E Sergio Caputo non poteva, nel panorama italiano, essere una scelta migliore. Per evidenza storica: pioniere del videoclip musicale, quando era ancora una forma d’arte piuttosto che il mezzo promozionale per antonomasia. Sergio Caputo del suo primo album (l’ormai mitologico “Un Sabato Italiano”, 1983) realizzò ben dieci videoclip, tante quante sono le canzoni del disco. Buffo che questi videoclip fossero realizzati quando ancora non c’era una televisione che li trasmettesse e che ne sfruttasse a pieno il potenziale. Li trasmise quel Mister Fantasy di Carlo Massarini, e tuttora giacciono sepolti nelle teche Rai con difficile fruizione. Eppure rischiano di essere dei reperti artistici interessanti, di un periodo in cui l’immagine al servizio della musica era qualcosa di assolutamente avveniristico. Ma per Sergio Caputo si trattava, per la prima volta, di essere estremamente in anticipo sui tempi.
Il problema di Sergio Caputo è quello di essere sempre stato Sergio Caputo. Qualcosa di riconoscibile e qualcosa d’altro rispetto al comune sentire. Non è una boutade: è la sua grandezza e il suo limite allo stesso tempo. Il perché della sua grandezza è facile da comprendere, basta ascoltare i suoi dischi, dagli anni ottanta ad oggi; il suo limite, è perché col tuo proprio mondo interiore non ci scendi a compromessi. Sergio Caputo è sempre stato indie, prima ancora che questo termine si inflazionasse e diventasse esso stesso quel mainstream da cui affrancarsi. Indipendente da tutto e da tutti, ha cominciato a farsi i dischi da solo quando ancora la discografia non navigava in così bruttissime acque. Da solo significa veramente da solo: un disco come “Egomusicocefalo” è un piccolo capolavoro datato 1993 e caduto un po’ nel dimenticatoio, interamente suonato e prodotto in solitaria. Andrebbe riscoperto. Ma ancora da prima, fin dall’inizio: quando ancora la poesia da sussidiario di certa canzone d’autore era la normalità fuori e dentro il festival del fiori, lui, che da lì si affaccia (avendo bazzicato il Folkstudio prima ancora che il lungomare), parte dal blues e dallo swing, passando per Joe Jackson e i Manhattan Transfer, e reintroduce nella discografia italiana il gusto dell’orchestrazione, a volte furbetta e sorniona, magari un po’ snob ma autenticamente intelligente.
Ma la differenza le fanno le parole. Caputo fa quello che pochi autori del nostro paese riescono a fare: crea un mondo. Un immaginario. Personale e collettivo. Le sue canzoni si muovono tutte in spazi definiti e riconoscibili, che all’epoca immaginavo come inventati o paralleli alla realtà. Procede per immagini (e rieccolo, il “video ergo sono”). Ascoltare le sue canzoni per me era immergersi in quel mondo: parlare col grande squartatore, indossando barbe finte e occhiali scuri, bevendo tequila mentre immerso in un retrogusto di vaga tristezza uno stock di giapponesi ti travolge. Pochissimi altri hanno saputo creare un mondo così definito e affascinante. Forse solo Paolo Conte o il Leo Chiosso che scriveva per Buscaglione, non mi vengono in mente altri esempi. Poi, quasi trent’anni dopo, in un libro chiamato “Un Sabato Italiano – Memories” (di cui consiglio la lettura, anche a chi non è fan o filologo di Sergio Caputo) ci confessa che invece quelle situazioni non erano nient’altro che la realtà: era la Roma dei primi anni ottanta, ovviamente trasformata e traslata secondo la sua sensibilità. E leggere le storie di tutti i personaggi che hanno popolato le storie cantate di Caputo è un piacere quasi come ascoltarle per la prima volta. Una nuova immersione in quel mondo di cui sopra. Non erano racconti immaginari, quindi, era la vita. Una vita dromedaria che si segue, incompetenti, eludendo i cambiamenti (quel pezzo è davvero un manifesto, è un peccato che dal vivo non la faccia più da tempo), affrontabile solo se coadiuvati da quella Citrosodina granulare che fu costretto a togliere dalla canzone per pubblicità occulta a un medicinale (per il Valium di Vasco Rossi, invece, nessuno fece storie).
Quando viveva la vita dromedaria di cui sopra, non immaginava di arrivare a quarant’anni. E di quegli stravizi e di tutti i whisky andati è piena la sua discografia. Buon per noi, si sbagliava. E dopo trent’anni e passa, reduce dalle varie celebrazioni del Sabato Italiano (perché in Italia, purtroppo o per fortuna, è più facile riguardare il passato che costruire il futuro) Sergio Caputo è ancora qui, con un disco nuovo (“Oggetti smarriti”, contenente alcune perle semisconosciute del suo repertorio e qualche inedito in cui si ironizza sui social) e tanta voglia di ironia e di musica. Quale astronave arriverà alla Villa di Poggio, quali cocktails si serviranno ancora all’Hemingway Caffè Latino delle Colline non è dato saperlo. E nonostante lui non navighi più in quelle acque tempestose dove lo trovò molto male in arnese, sono sicuro che quello spicchio di luna ci sarà. E qualche detective piangerà, di nuovo.