Giorgio Gaber, inutile negarlo, ci manca tantissimo. È una banalità, ma non saprei iniziare in altra maniera.
Ci manca la figura unica e granitica del Gaber teatrale, quel macigno che ci ha fatto ridere piangere e pensare per tutti gli anni settanta, ottanta e novanta. Ci manca quello che a teatro ci sbatteva in faccia il politico e il privato come nessun altro, che ci faceva riflettere sulle piccole miserie personali come sui grandi temi. Quello che insieme a Sandro Luporini ha dato un corpo al pensiero, ha reso una certa disquisizione filosofica alta accessibile a tutti.
Ci mancano quei temi lì, quelli degli spettacoli fino al 1999, più che il Gaber leggero delle canzonette, fin troppe volte ricordato e celebrato dopo la sua morte. Forse perché, quel Gaber lì, quello del teatro canzone, è più difficile da rendere se non si è, appunto, Giorgio Gaber. Anche Luporini, dopo la dipartita di Gaber, forse proprio per la mancanza dell’interlocutore diretto, ha smesso di interrogarsi su quei temi, almeno in pubblico. L’ultimo spettacolo a firma Sandro Luporini è “Un’idiozia conquistata a fatica”, del 1999. Poi più niente, fino a ieri.
Ieri, 18 aprile 2018, all’Auditorium del Pucciniano di Torre del Lago, è andata in scena l’anteprima dello “Stallo”. Un nuovo spettacolo di teatro canzone interamente scritto da Sandro Luporini, dopo quasi vent’anni di silenzio. Ad interpretarlo è David Riondino nei monologhi e in qualche frammento cantato, ed è affidato alla voce di Chiara Riondino e al gruppo dei Khorakhané per la parte musicale.
La curiosità e la fame di ripercorrere ancora quel mondo era tanta ed è stata ampiamente soddisfatta dalle due ore e passa di canzoni e monologhi interamente inediti. Più che nel teatro canzone, lo spettacolo del 2018 si colloca dalle parti del cosiddetto Teatro d’evocazione, quello di “Parlami d’amore Mariù” o del “Grigio”: il dialogo con una formica, ultima specie comunista ancora presente sulla terra, ci riporta a quel mondo Gaberiano del dialogo tra un impegnato e un non so, o ancora di quello col Grigio, quel topo che smascherava furbamente la nostra inettitudine.
Tutto lo spettacolo gira intorno ai rapporti umani, alle paure, agli interrogativi che una persona nella sua terza età (Sandro Luporini ha più di 80 anni) può avere nei confronti di una società in stallo, appunto. Siamo in stallo, non solo nella sfera sociale quanto, e soprattutto, nella propria sfera individuale.
David Riondino è impeccabile, ironico e sottile, sarcasticamente intellettuale quanto Il testo lo richiede. In tutto lo spettacolo sceglie un tono medio, di puro racconto, proprio per fare proprie quelle parole e, forse, per evitare paragoni improponibili.
Personalmente mi ero dimenticato della voce meravigliosa di Chiara Riondino, popolare e colta allo stesso tempo (non la sentivo cantare dai tempi del Collettivo Victor Jara) e i Khorakhané sono stati una bellissima scoperta, dando intensità e spessore musicale a quei testi che si posano come macigni ogni due o tre versi.
Complimenti anche a Fabrizio Federighi, produttore musicale e coordinatore dell’intero spettacolo, che ha fatto un lavoro di arrangiamento impeccabile e non derivativo. Rimangono nella memoria “La paura del mondo”, o “L’importanza delle acciaierie” sul poco interesse che, ad un certo punto della propria vita, si ha nel viaggiare e nello scoprire cose nuove.
In fondo sono solo timide e modeste variazioni, scrivevano i due in Polli d’Allevamento nel 1978. I Polli d’Allevamento ci sono anche nel 2018, ma sono invecchiati, hanno poca voglia di reagire, e aspettano la propria morte mentre sghignazzano su quella degli altri. La poesia e il cinismo del teatro gaberiano ci sono ancora tutte.
Unico neo, forse, lo scherzo di “Porno”, una canzoncina che sta musicalmente dalle parti della “Strana Famiglia” e che parla del rapporto fisico e solo fisico con una donna, la cui resa forse poteva essere migliore: il turpiloquio, quando sta dalle parti della poesia (il Cioni Mario insegna) è meno volgare se viene affrontato piuttosto che quando viene sottaciuto dando di gomito. Ma in più di due ore di temi così importanti e profondi è un peccato veniale. Resta la curiosità, impossibile, di sapere come certe cose le avrebbe fatte Gaber. Forse più istrioniche, forse più sofferte. Forse avrebbe dato più corpo alle parole, una cosa che sapeva e poteva fare solo lui.
Comunque Gaber, il suo spirito, seppure mai evocato nei testi, aleggiava in teatro ieri sera. E secondo me se la rideva, contento, anche lui.