L’India ci ha costretto ad un confronto con la complessità. Questo posto così ricco di contraddizioni, questo paradossale indescrivibile “caos calmo” dove si rimescolano continuamente odori, sapori e colori ci spinge ad essere molto cauti nel giudicare.
È un’ondata di differenza quella che investe chi arriva in India tanto che un ragazzo in un momento di riflessione collettiva ha detto: “Io starei anche per un’ora intera ai lati di una delle strade di Cochin soltanto per osservare e sono sicuro che non mi annoierei”. È necessario dunque accogliere, elaborare e distinguere dando un nome a ciò che ci travolge per comprenderne fino in fondo la complessità e dunque la bellezza.
Quest’anno (il decimo anno) il gruppo partito alla volta del Settlement di Cochin è numeroso e variegato: siamo in tutto 28 persone tra studenti, volontari e operatori, ma nonostante il numero dei partecipanti destasse qualche perplessità per questioni organizzative in realtà la prima impressione condivisa è stata quella di aver messo in gioco una grande energia positiva e propositiva. La gestione di un gruppo così numeroso è innanzitutto possibile grazie all’ospitalità e all’accoglienza ricevuta dalle suore domenicane del Rosary Convent ed è poi frutto del lavoro che ognuno dei partecipanti sta attuando su se stesso per imparare a costruire relazioni significative con gli altri. Proprio allo scopo di comprendere le dinamiche relazionali che si stanno intrecciando così velocemente ed elaborare l’esperienza che stiamo vivendo abbiamo deciso di riunirci per riflettere insieme ogni due/tre giorni al termine delle attività.
Ciò che è fondamentale ricordare a questo proposito è il valore che rivestono il volontariato e la cooperazione la cui importanza non è soltanto umana e pedagogica ma anche economica, sociale e politica in quanto ci troviamo di fronte ad un vero e proprio “moltiplicatore di risorse” come ci ha suggerito l’assessore all’Istruzione pubblica e Pari Opportunità Mariagrazia Ciambellotti.
Il volontariato contribuisce a far fiorire le limitate risorse economiche-materiali a disposizione dell’amministrazione pubblica, è un investimento che produce benessere su più piani per la propria comunità e ciò che è più straordinario è che permette di operare all’esterno del proprio territorio, magari anche molto lontano (come nel nostro caso), ma allo stesso tempo consente di riportare a casa un ricco bagaglio di esperienze, competenze e risorse da impiegare per intervenire nel nostro contesto.
Fatta questa precisazione che è importante non dimenticare, anche perché ben si addice a ciò che più mi preme sottolineare, dobbiamo riflettere sul senso più profondo di tale operazione che sta continuando da nove anni a questa parte e che quotidianamente si svolge nelle associazioni presenti sul territorio pratese, come all’interno della Polisportiva Aurora grazie all’aiuto dei civilisti.
Il vero significato della “cooperazione” sta nella parola stessa: cooperare vuol dire agire insieme per un mutuo beneficio, progredire insieme. Il fatto o l’atto di cooperare innesca un movimento significativo a doppio senso basato sul dare-ricevere in cui il dare è caratterizzato dalla gratuità in quanto si tratta di un dono e dunque necessita di umiltà nell’esser fatto e così il ricevere risulta arricchito dall’assenza di pretese. Il donarsi gratuito consente un ritrovamento di senso e permette di ricevere più di ciò che si dà se lo spirito e l’atteggiamento con cui lo si fa è libero da aspettative e da pregiudizi.
Tutto questo sta alla base dell’approccio con la malattia psichica che non pretende di essere risolta o eliminata, ma “grida” nel silenzio e nell’indifferenza dell’improduttività che mal si addice al nostro mondo di essere ascoltata e notata. La malattia psichica può essere migliorata entrando in una relazione di interazione con l’altro poiché i suoi peggiori nemici sono l’isolamento e la diffidenza: in primo luogo perché portano verso la stigmatizzazione che è il primo passo che spinge a negare la dignità umana del malato e a diffondere l’idea della sua inutilità nella società, poi perché significa negarsi la possibilità di un’esperienza di arricchimento e di confronto e di conseguenza di crescita.
Il ruolo dell’educatore si colloca proprio su un doppio versante di apertura del “malato” verso l’esterno e della società verso il “malato”. L’educatore è come una sorta di ponte tra “malato” e comunità dovendo coinvolgere in attività produttive e creative la persona che ha una malattia mentale per far si che non si tratti soltanto di rispondere ai bisogni fondamentali del malato (come accade nel manicomio) ma per dargli la possibilità di realizzarsi, una possibilità che deve essere data a tutti! Dall’altro lato cambiando il modo in cui il malato percepisce se stesso si sta lavorando più o meno indirettamente sul modo in cui la comunità lo concepisce. Eliminare l’imbarazzo delle differenze e istaurare relazioni significative in cui riconoscendo l’umanità dell’altro si ritrova anche la propria penso sia il senso della cooperazione. Il confronto con l’altro costringe ad una continua revisione e ampliamento delle nostre categorie; questo significa libertà dal pregiudizio e capacità di vivere nella complessità e nell’insicurezza che caratterizzano il mondo odierno. Non dimentichiamoci però che se vogliamo essere cittadini del mondo dobbiamo favorire lo scambio e il dialogo ma anche difendere le rispettive identità culturali per proteggere la diversità, dunque non dimentichiamoci chi siamo e non dimentichiamoci di agire nel nostro territorio una volta tornati a casa.
Ludovica Caliò