Little Steven non è una persona sola. E’ un coacervo di persone tutte sotto la solita bandana.
E’ Miami Steve Van Zandt, chitarrista della E Street Band fin dal 1975, seppure con qualche pausa in mezzo (l’ha lasciata nel 1985 e ne è rientrato nel 2000, quando di fatto la E Street Band è nata per la seconda volta ndr).
E’ Silvio Dante nei Sopranos, uno dei personaggi più amati della serie di culto, che si è poi evoluto in Frank Tagliano, il divertente e debordante mafioso esiliato in Norvegia di Lilyhammer (una serie di fatto costruita sul suo personaggio ndr).
E’ un dj e una voce radiofonica attenta al sottobosco indie americano da decenni. Il Little Steven Underground Garage è una trasmissione che va in onda in USA fino dai primi anni 2000, e le sue qualità di selecter hanno dato prova di loro anche lunedì scorso all’Hard Rock Cafè di Firenze. E’ un autore attento al sociale e a istanze politiche in tempi non sospetti, proprio in quegli anni ’80 dove la politica stava ben lontano dallo show business.
Ma soprattutto, è uno degli ultimi alfieri del rock’n’roll, quel rock’n’roll figlio della musica nera, del blues e delle radici afroamericane. E proprio quest’ultimo, di tutti i Little Steven possibili, è stato quello che è andato in scena a Pistoia Blues, dove per una sera la ragione sociale del festival ha ritrovato come non mai la sua identità.
Little Steven nella sua veste solista mancava dalle scene da più di vent’anni: è tornato con un disco, “Soulfire”, di cui di fatto s’è accorto solo lo zoccolo duro degli springsteniani, ma che ha il suo perché, sia in fatto di scrittura che di battito del piedino: a mio avviso, è il disco “più Springsteen” degli ultimi vent’anni, un tipo di disco che anche il Boss stesso, forse un po’ troppo ripiegato nelle mega-celebrazioni, non riesce a sfornare da tempo. Un disco divertente, citazionista, e soprattutto, autenticamente rock’n’roll. Il live che ha proposto in una piazza del Duomo piuttosto gremita di fatto è un viaggio nelle radici del soul e del rock attraverso i pezzi originali del suo ultimo album e diverse cover perfettamente in linea, da Etta James a James Brown, da Chuck Berry a quel Southside Johnny che rappresenta, per Steve e per Bruce, il vecchio amico più grande, quello che prima di loro ha scelto la strada del rock, e che veniva omaggiato spesso con pezzi scritti a quattro mani.
Quindici elementi sul palco, rigorosamente in divisa come le vecchie orchestre di rhythm’n’blues, un’ampia sezione fiati e tre coriste nere in stivale bianco armonizzanti e danzanti. E poi lui, ecumenico quanto basta, raccontatore di storie in un’italo-inglese slangato di facile comprensione, capace di passare dal blues alla blaxploitation con la stessa faccia da schiaffi e con quell’approccio da soul man bianco che in pochi, tuttora, hanno.
C’è stato poi, verso la fine del concerto, anche il momento dedicato al repertorio vero e proprio del Little Steven solista, i dischi barricaderi degli anni ’80 con “I am a Patriot”, “Out of the darkness” e “Bitter fruit”, giusto perché un po’ di greatest hits lo devi fare, ma che probabilmente costituisce il momento meno entusiasmante del concerto. Il pubblico comunque apprezza, balla, muove le mani a tempo: un pubblico non giovanissimo, che orgogliosamente indossa magliette di tour internazionali rigorosamente con la faccia e la chitarra di Bruce stampata sopra.
Ma poco importa, quello che Little Steven ha voglia di fare e si diverte a fare adesso è concentrato nella prima parte del concerto e in quei bis, specialmente in quella “I Don’t Wanna Go Home” (pezzo scritto per Southside Johnny negli anni 70 dai due amici e sodali di cui sopra ndr) che ha visto tutte le mani al cielo in quell’urlo liberatorio cantato da tutti, “Reach out and touch the sky”.
Hey hey my my, rock’n’roll will never die, cantava quell’altro: forse il rock non se la passa benissimo, data l’età, ma a giudicare da concerti come questo è ancora ben lontano dalla casa di riposo.