“Il rock non eliminerà i tuoi problemi. Ma ti permetterà di ballarci sopra” Pete Townshend.
Pensare Firenze al centro di un evento rock così importante era strano da pensare, qualche anno fa, eppure ci siamo. Ci sono tutti gli ingredienti fondamentali per la riuscita di questa data degli Aerosmith, o meglio di uno dei tre giorni denominati giustappunto “Firenze Rocks”. C’è il caldo, perché diciamo che pur essendo italiani la temperatura di Bengasi il giorno prima San Giovanni è strana e peraltro noiosa (del resto il caldo e il sole sono delle intemperie per lo scrivente, lo sappiamo). C’è che è Venerdì, e come dice il buon Liga, non mi rompere. Ci sono le band spalla che si fanno la sudata alle 16 per due bischeri che si son messi a prendere il sole. C’è che la data è l’unica italiana dell’headliner, e quindi gli amanti del rock di tutto lo stivale non potevano perdersela. C’è la polvere, amica dei festival, quella che vedi gialla in lontananza e dici “ma devo andare li?”.
I fiorentini si muovono da bravi ,a piedi o con qualche mezzo a due ruote, consci del fatto che oltre i 300 cantieri in città, la partecipazione e la folla sarà talmente alta da rasentare un congresso di “Possibile” in provincia di Ravenna: l’arrivo con largo anticipo è quindi obbligatorio, anche per vedere il gruppo precedente gli Aerosmith, ovvero i Placebo, formazione nobile e non decaduta.
Strano accorgersi, dirigendosi verso Piazza Puccini, che Firenze diventi improvvisamente il Jammin Festival di Imola, con i partenopei e le loro tinozze piene di ghiaccio con dentro le birre del discount a 5 euro e con fiumi di persone che percorrono Via delle Cascine. Giovani, meno giovani, tutti accomunati da un senso di appartenenza forse casuale (cosa c’entra uno di Bologna con la maglia dei Depeche Mode solo la Madonna lo sa), ma con tanta buona volontà e pazienza. “Il popolo rock” cantavano i Tazenda, e davanti al popolo rock noi ci inchiniamo.
Logistica di ingresso perfetta, nessuna coda, controlli ottimi ma non invasivi, per quanto ci riguarda. Il maxischermo alle 18.40 ci manda Valerio Mastrandrea che praticamente diventa lo steward registrato di questo happening: “In caso di difficoltà state calmi”. Chi si muove: si suda ad allacciarsi le scarpe.
Slalom e code per bagni e “token”, ovvero la valuta che il Visarno Arena usa come soldo contante, ma tutto bene per noi ex giovani, che riusciamo ad individuare subito un posto dove bere qualcosa comodamente che non sia birra, perché il popolo rock beve solo birra. Slalom fra succinte signorine in completo Intimissimi che pensano di essere nei camerini e aspettano i loro rispettivi in coda per la birra. Slalom ancora fra coloro che pensano di essere a Lignano Sabbiadoro e hanno steso telo mare, abbronzante e doposole, imperterriti nel fatto che migliaia di persone li scavalchino con i loro zainetti e le loro Adidas polverose. Chi si accontenta gode, ma rompe un po’.
Placebo. Invecchiati, va detto. Bravi però, bravissimi. Brian Molko dimostra che è un essere umano presentandosi in pantaloni corti e rischiando una disidratazione totale deliziando il pubblico con 50 minuti di ottima musica: senza fare il “best of”, ma va bene così. Del resto pensare che questa band, sottovalutata da più di 20 anni, riesca ad esibirsi sotto il sole non è roba da poco. Il percorso filologico ha un senso, perché aspettando gli anni 70-80 ci becchiamo i fine 90-inizio 2000 dove a fine pezzo Molko manda la chitarra in rientro costante. Ma non possiamo dirgli niente a questo signore, che ci canta anche “Nancy Boy”. Che se la buonanima di Bowie avesse fatto un figlio con Lou Reed (?) sarebbe uscito Brian Molko.
Il sole sta calando, ci siamo. False partenze, selfie ovunque. Ma arriva il momento, e ce ne accorgiamo dalla nostra postazione sulla destra quando vediamo alzarsi 30.000 telefoni. Eccoli, gli Aerosmith, anche se siamo talmente lontani che sembrano i soldatini accosciati che mettevamo sul divano da piccoli per giocare. Dei puntini con il sottofondo casuale della “Carmina Burana”, ma che sul maxischermo sono enormi. Siamo sinceri: questi signori ancora “gliene ammollano”. Steve Tallarico, detto Tyler è un autentico animale da palco, e tutto è perfetto. Voce perfetta, appeal straordinario, come lo stesso è per il chitarrista, l’altro membro dei “Toxic Twins” (simpatico soprannome usato negli anni settanta per apostrofare Steve e Joe). Tosti, tostissimi, precisi, la perfetta macchina da guerra del rock. Quella che vuole i pezzi fatti di intro, strofa, ritornello, strofa ritornello, solo di chitarra a caso o dietro la linea vocale, reprise con tono alzato e finale con il batterista che sta 23 minuti a suonare i piatti. Gli Aerosmith sono perfetti in tutto questo, forniscono l’immagine ribelle e molto divertente del rock da famiglia. Sono Hollywood fatta musica, sono il prodotto di Richie Finestra 40 anni dopo. Sono coloro che suonano per non sapere né leggere né scrivere un pezzo dei Beatles in concerto. Il rock è facile, il messaggio di questa serata è questo. Tre botti, due vestiti leopardati, fai successo con due ballate. Almeno lo facevi, perché ora il gioco è un po’ diverso.
I fan degli Aerosmith? Son bravi, amanti delle schitarrate, dell’attitudine. Hanno comprato The Big Ones nel 94, ci son cresciuti con loro, i Bon Jovi e i Guns. Mentre al bar si ascoltava “Si o No” di Fiorello loro si compravano la bandana rossa al mercato e una chitarra elettrica cinese con i soldi del Natale. Ci piacciono, son genuini e rispettosi.
E’ tutto facile, insomma. Basta semplificare. Questa è la morale della splendida serata in cui abbiamo visto Firenze capitale della musica italiana. Bravi tutti, anche gli Aerosmith, nonostante non aver capito bene la differenza dei tre quarti dei brani suonati. Limite nostro.
P.S. Non diteci “cosa andate a fare allo stadio che non si vede niente”. Nei festival rock si guardano i concerti sui maxischermi. L’importante è esserci.