Faust’O sarà in concerto a San Salvi (via di San Salvi 12, Firenze) stasera, 9 giugno. Non Fausto Rossi, come da carta d’identità e come appare negli ultimi dischi, ma proprio Faust’O, lo pseudonimo che segna i suoi dischi dal 1978 al 1985.
Mi sono informato, dice che sarà un concerto chitarra e voce, e che spazierà un po’ per tutta la sua discografia. Mamma mia. Sono già emozionato all’idea. E’ cosa molto rara assistere ad un suo live. Io, che di concerti ne ho masticati un bel po’ in trent’anni di onorato servizio, non sono mai riuscito a vederlo dal vivo, eccezion fatta per una sua ospitata sette o otto anni fa in un live dei Massimo Volume a Ferrara. Tre pezzi, piuttosto recenti (degli anni ’90) e sul primo ero già sconvolto. Lo so, forse sto esagerando. So anche che se non siete il sottoscritto, è difficile capire cosa evoca questo nome con l’apostrofo sul finale.
Faust’O, per quanto mi riguarda, è stato l’inizio di tutto. Prima di lui c’era solo la radio, la mamma che stirava, qualche timida incursione nella canzone d’autore. Poco d’altro, molto poco di altro. Non so come l’ho conosciuto. Forse qualche cattiva compagnia che aveva fratelli più grandi e già stava attenta alla “gnu ueiv”. Ma no, prima, molto prima. C’era una cosa che si chiamava “Oh! Oh! Oh!”, direttamente dal juke-box del paesino di montagna dove passavo le vacanze. Faceva a cazzotti con i Pupo e gli Alan Sorrenti dell’epoca. Un incedere a scatti, nervoso. Un testo che non raccontava e non faceva poesia, almeno quella che io definivo tale all’epoca. “Non mandarmi sempre fotografie, sai che poi io le butterei via”. E poi, una voce femminile, che nel bel mezzo del silenzio di una strofa domandava “Ancora?”. Io l’aspettavo, quell’ancora lì. Quasi sempre ci davo.
Quello fu il seme. Poi arrivò l’inizio degli anni ottanta: facevo le medie, e poi i primi anni delle superiori, e lui piombò nei miei ascolti in cassetta. Hotel Plaza, amo i tuoi fiori come nevrastenie. Non è colpa mia, la vita è come un lampo sullo schermo. Ogni fuoco che accendo mi spinge verso il cielo. Erano canzoni assolutamente sghembe, per i miei gusti, per i miei ascolti, per la mia poca cultura di allora. Sghembe ma geniali. Facili e difficili allo stesso tempo. Pregne di mitteleuropa, di suoni sintetici, accattivanti e futuribili. Cose che fino ad allora non avevo mai sentito. Fu lui ad aprire la porta. Bowie, i Talking Heads, gli Ultravox e tutto quello che ne è seguito sono entrati nella mia vita grazie a Faust’O. Del quale, ovviamente, non sapevo nulla. Non leggevo la stampa musicale, e sul Monello o su Boy Music a volte c’erano dei trafiletti che lo dipingevano come “quello che usa il computer con il cuore”. Erano gli uffici stampa degli anni 80, e dovevano arrivare a degli adolescenti. A me, quindi. E mi arrivò, di schianto. Ricordo che c’è stato anche un periodo in cui mi firmavo F’abio. Oppure F’, con l’apostrofo che frange il normale incedere della parola. Pensa te.
Poi ho scoperto che Faust’O, all’anagrafe Fausto Rossi, all’inizio, era quello delle scarpe gialle. Una campagna pubblicitaria curiosa e senza precedenti in Italia: un trafiletto pubblicato su molti quotidiani, in cui, come in un qualunque “Chi l’ha visto”, si cercava un tale Fausto, scappato di casa, che indossava delle scarpe gialle. Bastava questo, per la società perbene degli anni ’70, a caratterizzarne la trasgressione. Poi un disco d’esordio, dall’inquietante titolo di “Suicidio”, in cui si esprime curiosità disincantata per quel gesto estremo, l’amore per ogni tipo di perversione sessuale (Godi, però di nascosto, nel cesso, nel bosco, nell’ultimo posto in cui Dio ti vedrà), e che si conclude con quel “Benvenuti tra i rifiuti” che anticipa, da noi, la filosofia del punk. La musica sta tra Bowie, Lou Reed e Ultravox, quelli di John Foxx (di cui c’è anche una traduzione, quasi letterale ma su altra musica, di My Sex). Considerato che da noi, in questo momento storico, la trasgressione sessuale è Renato Zero, Fausto sposta l’asticella qualitativamente verso l’alto e geograficamente verso l’Europa.
Non è solo: ci sono i Krisma, c’è il primo Ivan Cattaneo ancora non folgorato dal revival, di lì a poco arriverà Garbo e tutta la new wave italiana poco sopportata da chi cercava centri di gravità permanente. Ma sono poche pecore nere. Animali rari.
“Suicidio” fa il paio, stilisticamente, con “Poco Zucchero”, che arriva un anno e mezzo dopo. Il disco della già citata “Oh Oh Oh” e soprattutto di “Vincent Price”, inno all’orrore quotidiano, cinematografico e non, e di altri due capolavori “Funerale a Praga” e soprattutto la voglia di andarsene de “Il lungo addio”. La poetica di Suicidio si ritrova amplificata nel “pacchetto di Kleenex e maiali in lamè dentro la suite di un Hilton”. Però il personaggio inizia a farsi spazio, suo malgrado, anche grazie a passaggi televisivi mal sopportati da quel temperamento avulso a logiche di marketing uguali per tutti. Per un Discoring subìto, c’è un Festivalbar in totale playback in cui il nostro invece di cantare mangia una mela. Nulla di studiato, la genialità sta anche in questo.
E arrivano gli anni Ottanta.
Con gli anni ottanta arrivano due dischi, figli della stessa rivoluzione: “J’accuse… amore mio” nel 1980 e l’omonimo “Faust’O”, nel 1983: il disco delle nuvole, forse la sua opera più compiuta e significativa. Quell’opera custodita interamente a memoria dal sottoscritto, e adorata come pochi altri dischi al mondo. L’italiano viene abbandonato, anzi, superato in virtù di un coacervo linguistico e citazionistico. Per il disco del 1983 le lingue usate sono addirittura sette (così sottolineano i comunicati stampa). Per me sono stati un tutt’uno, nonostante i tre anni che li dividono, perché facevano parte della stessa cassetta C90. Hotel Plaza, amo i tuoi fiori come nevrastenie. Lo scherzo nervoso di “Non mi pettino mai” o quell’elenco di personaggi e interpreti (“Talking Heads, and that’s a fact, Human League o Uomo vogue, cosa importa”) che per me nulla erano di più di suoni senza significato, affascinanti epifanie di un mondo adulto, qualcosa di terribilmente moderno. E poi, ogni fuoco che accendo mi spinge verso il cielo.
Il capolavoro. “Non esistono chiavi di lettura – scriveva nelle note del disco del 1983 – lo sforzo è stato il lasciare che l’interno fluisse (…), il lasciare che parola dopo parola, le immagini prendessero una propria forma senza chiedersi perché o da dove venissero”. E anche la musica, per la prima volta, fa tesoro di tutto quello che gira intorno ma non segue pedissequamente. L’elettronica fa da padrone, ma con una propria originalità, poco riscontrabile in qualsiasi altra produzione. Per essere precisi, tra i due dischi ne esiste anche un terzo, lì in mezzo, “Out now”, uscito in pochissime copie e fuori dalla discografia ufficiale. Un disco sperimentale, sotto tutti i punti di vista, dove le canzoni non esistono. E’ il laboratorio che farà di “Faust’O” il disco della maturità.
Poi, da lì in poi, è difficile seguirlo. Il percorso non sarà mai più lineare. “Love story” è interamente in inglese, un disco quasi di mantra, bassi ossessivi e batterie tribali. Il riferimento, se proprio si vuol trovare qualcosa per similitudine, va ai Joy Division. Sulla sua memoria ci scrissi un piccolo racconto, per fissare cosa aveva suscitato in me (Si trova qui). Poi, sette anni di silenzio, totale. Sette anni. Un’eternità. Io pensavo che fosse morto, anzi, forse qualcuno me l’aveva anche detto.
Nel 1992 torna (quasi non ci potevo credere) con “Cambiano le cose” e uccide lo pseudonimo, come fa Stephen King con Bachman. Fausto Rossi, nelle sue generalità, da qui in poi. Le cose cambiano davvero, si rarefanno, anche se l’elettronica (molto più minimale e sakamotiana) la fa ancora da padrone. Tre anni, ed esce quello che molti considerano il suo capolavoro, “L’Erba”. E per molti aspetti lo è. “Perché il mio amore”, “Troppe canzoni” e la stessa “L’erba” sono tre macigni. Una nuova tabula rasa: basta con l’elettronica, si torna agli strumenti veri, e alle parole, dure, taglienti, forse mai così cattive. In senso buono, anzi, sublime. “Exit”, il disco di due anni dopo, chiude il cerchio: come sonorità sta dalle stesse parti dell’Erba, i testi sono assolutamente molto più pessimistici, negativi. scuri. Quasi come il “Suicidio” di vent’anni prima, ma senza ironia. Seguono altri dieci anni di silenzio, ma oramai ci siamo abituati.
Negli anni dieci del nuovo millennio i dischi sono tre, dei quali due (e mezzo) in inglese. Personalmente non ne afferro più la linea, pur continuando a nutrire un infinito rispetto (e amore) per quello che ha fatto ed ha significato. Però torna a suonare dal vivo, cosa che ha sempre fatto un po’ col contagocce, anche nei periodi di produzione discografica più intensa. I concerti sono chitarra e voce, intimi, con il repertorio dagli anni ’90 in poi e con poche concessioni ai dischi di Faust’O. A volte nei concerti ci sono intermezzi letterari anche scomodi, pezzi di Burroughs, citazioni dalla Beat Generation, lettere di Charles Manson. Così mi riferiscono, quelli che l’hanno visto. Ancora non ho avuto questo piacere.
Poi, arriva l’evento di venerdì 9 giugno. Non Fausto Rossi, ma Faust’O, così recita la locandina di San Salvi. E questo, pur essendo (come annunciato) un concerto in solitaria, chitarra e voce, può voler dire qualcosa di preciso. L’adolescente che ancora alberga nell’attempato signore che sta scrivendo sta fantasticando da una settimana. Staremo a vedere. Tanto lo so che non ce la faccio a vederlo nemmeno stavolta. Mi entrerà una febbre a 39 e mi costringerà a letto, così come è già successo altre volte. Comunque, per scaramanzia, ho ritirato fuori i vinili. “Non è colpa mia, non è colpa mia, non vedi come tutto arriva sempre troppo tardi per noi?”