Questo pezzo si chiama “Perché ha un senso tornare a vedere la Bandabardò tutte le volte che si può” – nella fattispecie, stasera 19 maggio in Piazza del Mercato Nuovo, a Prato a tutta birra, dove non si paga nemmeno – e perché la cosa non ci delude mai e non può farlo, per definizione. Ma il pezzo si potrebbe concludere con “perché sì, punto e basta”, e morta lì. Fine delle danze. Anzi no: inizio delle danze, fine del culturale, inizia il ricreativo. Però in qualche modo si deve argomentare, soprattutto per tutti quelli che sono incerti e magari non sanno quello che si perdono. Ma ne esistono davvero, di questa specie? Va be’, dai, ripartiamo dall’inizio. Dal mio inizio.
La Bandabardò la seguo ancora da prima che con alcuni di loro diventassimo amici (anche se ora ci siamo un po’ persi di vista). Credo di aver visto se non il primo, di sicuro il secondo o il terzo concerto nel 1993 o giù di lì (quello all’Anfiteatro del Pecci dove c’era Orla che cantava Should I Stay Or Should I Go). Ricordo che il primo disco, quando uscì, era già un classico. All’epoca, quando li si andava a vedere dal vivo, si aspettava a gloria “L’inquilina del quinto piano”, quella che finiva con “E feste su feste, dal tramonto all’alba, danze e carezze”. Tutti capivamo cosa volesse dire, al di là delle parole. (Piccolo inciso: che fine ha fatto quel pezzo? Perché sono almeno quindici anni che non lo suonate più? Che cosa vi ha fatto? Fine dell’inciso.)
Perché in quegli anni la Banda, più di altri gruppi, è riuscita a creare un vero e proprio immaginario collettivo. Le canzoni erano degli inni alla vita, alla voglia di viverla fino in fondo, senza tante seghe mentali. Spostandosi sul personale, il fatto è che “Il circo mangione” (quello con una copertina in simil-AndreaPazienza), ma anche il secondo “Iniziali Bi Bi”, capitarono in un momento preciso della mia vita, quando dovevo in qualche modo decidere cosa fare da grande. Tutta la prima parte della produzione ha segnato i miei sogni post-adolescenziali, da universitario, a cavallo tra il far festa e il mettere la testa a posto. Loro mi suggerivano sempre la prima cosa, giustamente. Io a volte li ho seguiti, a volte no. Però quando mi dicono che bisogna fare sempre sogni grandiosi so cosa vuol dire. Conosco perfettamente la voce della testa che mi dice “la notte vai a suonare”, e quando in concerto parte a volte scappa anche la lacrima. Anch’io ho avuto una Miriam che mi ha servito alchimie dentro il mojito, anche se non ho mai giocato a pallone. Almeno un concerto all’anno me lo sono quasi sempre fatto, come andare alla messa a Pasqua, aspettando sempre “i pezzi vecchi”, quelli che da vecchio bacucco quale sono avevano per me un significato al di là del valore della canzonetta. Ho continuato a comprare anche i dischi (non tutti, qualcuno l’ho solo scaricato, comunque li ho tutti, giuro).
I dischi, si diceva. I dischi per la Banda sono sempre stati un male necessario. Sono stati importanti e non sono stati importanti, in egual misura. In alcuni casi altro non erano che la ragione per cui doveva seguire il tour. In altri casi, dei tentativi forse un po’ troppo cerebrali di realizzare un’opera compiuta (mi riferisco ad Ottavio, una bella idea, una bella storia, ma non completamente messa a fuoco…) Ora che, socialmente ed economicamente questa cosa del disco-tour-disco-tour non ha più senso, secondo me si sono anche rilassati. Perché a partire dal terzo disco in poi, dai, qualche traccia di cui si può fare a meno nei dischi si trovava. Non ce ne fregava gran che, sinceramente, perché da vecchie volpi scafate del palco quali erano e sono, quei pezzi – diciamo così – “minori”, nelle scalette non apparivano. Ai concerti si andava e si va sempre via contenti, con gli Uomini celesti, le donne del porto e gli ubriachi che cantano amore alle persiane. Un mondo che, ripeto, chi l’ha vissuto non ne può più fare a meno. Il percorso artistico della Banda è oggettivamente più che dignitoso, lo so, ma spesso nelle produzioni – almeno a me – mancava quella cosa che ti stringe dentro e ti manda a fare in culo per la bellezza. Questo fino all’Improbabile, l’ultimo disco uscito, oramai vecchio di tre anni. Quello sì, l’ho consumato fino all’inverosimile. Oh! Un disco. Finalmente un disco. Un gran bel disco. Di livello. Non ho ritrovato la Banda degli inizi ma una Banda che ha ricominciato a parlarmi e a farmi muovere qualcosa dentro. Mica è da tutti recuperare un crostino come me, una volta che si è fatto un’idea. Ma guarda te che cosa non ti tirano fuori, sull’orlo dei cinquant’anni…
Comunque, la Banda non si ascolta su disco: si ascolta dal vivo. Ballando, spingendo fino in fondo il piede sul motore, cantando in coro, convinti, che ci servono venti bottiglie di vino (chi dice di più, chi dice di meno), convinti che la mattina dopo ci vuole sempre un cardiologo, un veterinario e una maschera facciale. E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re. Perché è proprio allora che, fanatico, il cuore resuscita e si agita. Come tutto il resto del corpo, a dire il vero, cervello compreso. Insomma, facciamola breve: la Bandabardò continua ad essere un’oasi di bellezza intelligente, di partecipazione collettiva a qualcosa di davvero intimo come può essere intimo lo scegliersi le amicizie, e quelli che pensano che a volte indulge un po’ troppo sullo slogan è perché non stanno ballando. La Bandabardò ci regala questo ad ogni concerto, ogni sera, da venticinque anni. E perché mai dovremmo rinunciarci? E se poi, tante volte, dovesse ritornare anche l’inquilina del quinto piano…