Quando mi hanno portato qui alle carceri di Prato, nei miei paesi la neve era alta e se devo dirla tutta io a quel colpo facevo solo il palo. Anche se l’avvocato mi diceva “dì che sei colpevole, dì che sei colpevole” io mica mi sentivo colpevole, vacca boia, e allora mi sono dichiarato innocente.
Mi hanno portato in questo carcere che erano le undici di sera e faceva buio come in un pozzo pieno di merda. Mi aspettavo un trattamento da schifo e così è stato, ma c’ho fatto il callo. Come diceva Emanuel se non c’hai la cotenna d’un maiale la vita è ancora più sozza. Bisogna impastoiarsi fin dentro alle mutande per non farsi tirare il collo come una gallina.
Mi hanno tenuto per due anni e 27 giorni in una cella insieme a dei tipi che è gente di principio come me, poi una notte, sempre d’inverno, i boia che m’hanno rinchiuso qua hanno deciso che ero uno non troppo da schifo, uno di quelli che forse non meritano di venir seppelliti là nel campo, dove d’inverno c’è il ghiaccio e l’estate le mucche a sbiascicare. M’hanno messo a fare compagnia ad un vecchio in un’ala delle carceri là giù in fondo. Io e questo vecchio, nessun altro, ora pare un ergastolo la pena. Dalla finestra si vedeva tutto il quartiere, oltre i campi. Il vecchio mi ha sorriso dalla branda per dirmi che quelle luride case si chiamano La Dogaia e m’è parso che sorridesse.
Era un vecchio sui settanta ligio ligio che non parlava quasi mai, mi sembrava facile da lavorarlo per farsi qualche vantaggio proprio, là alla cambusa magari, ma non aveva manco i soldi da potergli tirare via, sembrava che facesse una vita da santo. Sto stronzo di vecchio poi non s’azzardava a fare nulla. Nella cella non c’era manco la tv e lui si limitava a guardare il soffitto lercio di questo mondo in cui m’è capitato di vivere. Non puliva e non lavorava e manco leggeva, passava le sue giornate a guardare il soffitto. Quei bastardi dei secondini gli volevano addirittura bene e se questo vecchio voleva farsi una passeggiata là per i campi, fuori dalla struttura carceraria, lo facevano uscire a qualsiasi ora. Solo che lui preferiva rimanere lì nella branda, sto stronzo.
Senti un po’ – gli faccio dopo poche ore che l’ho conosciuto – ma tu che hai fatto per finire qua?
Lui distoglie lo sguardo dal soffitto e mi lancia un’occhiata un po’ così. Non mi risponde mica nulla. Sta in silenzio. Una roba da far accapponare la pelle. Sto vecchio schifoso, mi viene quasi voglia di dargli una lucidata al cranio a suon di gomitate, ma mi trattengo, che lo so che questo canarino parla con le guardie e poi la cella paradiso di merda me la sogno, giù di nuovo nel pozzo buio e schifoso da dove vengo. E allora mi giro dall’altra parte e prendo sonno, che domani in lavanderia mi devo spaccare il culo io, mentre questo vecchio contempla il soffitto, lui.
La mattina dopo mi sveglio che non si è mosso neanche di un millimetro sulla sua branda, ma ci pensi, con le mani incrociate dietro al cuscino che guarda il soffitto. E ci perdo il capo io così, che forse è meglio se mi mettono nel buco per due mesi.
Senti un po’ – gli faccio io – ma che ci vedi sul soffitto te?
E lui ha sorriso. Due sberle a questo stronzo non gliele toglierebbe nessuno se ci fosse un po’ di giustizia al mondo. Ma proprio mentre mi stavo per alzare e fargli capire che è buona educazione rispondere quando qualcuno ti fa una domanda, sono arrivati i secondini e m’hanno detto che dovevo andare alla lavanderia. E allora ho mosso il culo, vacca boia, ho sgobbato come un frocio da doccia col mio ferro da stiro, ho fatto i cazzi miei coi miei soci d’affari nel cortile, che forse quando esco fra sei anni e duecentododici giorni ho già qualche lavoretto vantaggioso, di quelli che ti rimettono un po’ nel giro.
Gli affari d’inverno sono più facili, che c’è il giaccone dove infilare la roba e quei bastardi di aguzzini se ti controllano ti devono controllare meglio. Così in questo periodo noi siamo tutti più contenti, vacca boia, che di soldi un po’ ne gira. Anche se c’è più da stare attenti che qualche stronzo te lo vuole sempre mettere su per il culo, qua alle carceri d’inverno. Ma d’estate la cosa si fa più difficile e solo chi si è organizzato come dico io, vacca boia, tira su la grana.
Ogni tanto qualcuno si piglia un’inforcata nella buzza se non sta in campana. Ci sono delle regole, porco cane e se le rispetti allora non ti succede niente, l’importante è non sgarrare. E comunque mica è una bella vita. Io qui ci sono perché col giudice non ci siamo capiti bene, ma anche se fossi colpevole trascorrere la vita nelle carceri è uno spreco da voltastomaco. Mi viene da tirare i pugni alla parete perché prima o poi morirò e il tempo che ho passato qui nessuno me lo renderà indietro. Nel cesso vanno questi giorni, giù nelle fogne, insieme alla merda che solo i pesci se la mangiano. Vorrei poter tornare indietro e non farmi acchiappare. Se solo fossi stato un po’ più attento a scegliermi i soci per quel colpo, allora forse starei a bere una birra e a truccar le scommesse e ad annusare le mutandine delle troie, ora me ne farei sei o sette tutte insieme, invece che buttare via il mio tempo in questo buco di merda.
La sera m’ero dimenticato del vecchio e invece lo ritrovo il porco lì che si gratta una gamba, sulla branda, guarda il soffitto e sospira.
Ma che c’hai da sospirare – gli faccio guardando i campi dalla finestra – sei stato tutto il giorno a letto, manco c’avessi un ictus da andropausa.
E lui mi risponde che quei campi là danno sull’autostrada e più in là c’è Prato.
Ma lo so cazzo che ti credi – gli ho fatto io – che non lo so dove m’hanno rinchiuso?
E lui ha sorriso e s’è alzato in piedi. C’aveva queste due gambine secche che mi ricordavano un campo di sterminio, i capelli bianchi unti, due occhi rossi, manco un filo di muscolo sulle braccia, sembrava più un fascio di grano secco che un figlio di Dio. E sto stronzo ha bussato sulle grate ed un secondino è accorso e l’ha portato a farsi una passeggiata fuori. Lo vedevo dalla finestra della cella, le mani incrociate dietro la schiena, a parlare nei campi col secondino, nei campi quelli fuori dalla cinta muraria, sto stronzo, di che cazzo stanno a parlare. Qua c’è da farsi attenti, che mi acchiappano gli affari del carcere se quello s’accorge che c’ho i cazzi miei coi miei soci allora va a cantare sto vecchio pennuto. Mi devo far dare una lama di quelle che inforcano la buzza che poi non ti si ricuce più. E quando c’è il momento giusto glielo faccio vedere io come si spifferano gli affari miei, ma questa volta non al secondino, ma giù all’inferno diretto diretto nell’orecchio del demonio.
E il giorno dopo durante la pausa mi faccio prestare una lama di quelle che Picciarello usa per gestire gli affari suoi. Gli ho dato in cambio cinque paglie anche se non è che lui me le avesse chieste. Me la sono messa nel giaccone dentro a un buco del cazzo che c’ho dentro alla manica, ché m’entra pure il gelo ma è un nascondiglio che non mi fa l’ansia e quando la sera, dopo che il vecchio stronzo s’è fatto la passeggiata, hanno spento le luci e lui guardando il soffitto sospirava ai cazzi suoi, allora lemme lemme mi sono alzato. La luna a febbraio entrava dalla finestrella come una palla sepolta nel terrore. Il freddo, c’era un freddo che ti sembrava d’esser già morto, ma il cuore s’agitava come un maiale sgozzato, mentre avanzavo verso di lui con la lama ben stretta in pugno. E passo dopo passo nella notte, un silenzio tra le mura di questo bagno penale, mi sono avvicinato. E quando ero a poco più di un braccio, allora lui s’è accorto di me, perché sto vecchio la notte non dormiva bene. M’ha guardato come se fosse stato un cane alla gogna, la bocca pronta a gridare. Gli son saltato su e gli ho appoggiato la lama sul gozzo, premendo quanto basta per ficcargli in testa l’idea della morte.
Allora dimmi un po’ – gli ho fatto sputacchiando sulla sua faccia di merda – che cazzo hai fatto per finire qui? E lui m’ha detto: sto solo scappando. Scappo solo dai pagliacci.
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