“Cittadini del mondo – Passaggio in India” è un progetto di Cooperazione Sanitaria Internazionale che ha come obiettivo principale la promozione della salute mentale attraverso la messa in discussione dei pregiudizi e dello stigma, presenti nel nostro paese e nella società Indiana, verso le persone che soffrono di disturbi psichiatrici o di disabilità mentale.
Per attuarlo abbiamo costituito un gruppo di progetto che, durante tutto il 2016, ha fatto moltissime riunioni, incontrandosi con regolarità, per pianificare le attività che avremmo dovuto realizzare e che stiamo realizzando durante il nostro soggiorno a Cochin, nello stato del Kerala-India.
In ambito scientifico, il nostro progetto viene definito come un intervento di “Ricerca Azione – Action Research”, che si prefigge lo scopo di cambiare la realtà in cui opera e migliorare la qualità della vita delle persone coinvolte.
Quando ci impegniamo per realizzare tutto questo, dobbiamo tenere sempre presente dentro di noi due domande: “Cosa possiamo fare per migliorare la qualità della nostra vita e delle persone che ci sono vicine? Come si fa a favorire il processo di cambiamento?”
Quindi cercherò di rispondere a questi interrogativi illustrando due punti che rispondono a loro volta alle domande “Perché si cambia?” e “Che ruolo ha il lavoro nei processi di cambiamento?”.
Perché si cambia?
Il cambiamento è specifico di tutti gli esseri viventi e non solo dell’uomo. La vita è cambiamento. Fin dai primi momenti in cui la vita viene concepita essa si manifesta attraverso un processo, a volte repentino a volte lento, di continui cambiamenti. Per noi esseri umani fermare il processo di cambiamento, fermare il processo di crescita e maturazione della nostra soggettività, significa avere un rapporto con la morte, che può assumere le forme di una morte sociale attraverso comportamenti di chiusura, di isolamento e alienazione, oppure può assumere le forme di una morte psicologica dove le difficoltà a gestire la dimensione emotivo-affettiva possono portare alla perdita di senso rispetto al nostro vivere e, infine, si può incorrere nella morte fisica in seguito a comportamenti onnipotenti e temerari, vedi incidenti stradali o il suicidio. Noi occidentali non dovremmo mai dimenticare che fra i giovani europei, nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni, il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali.
Ma nonostante il cambiamento sia l’elemento fondante di qualsiasi processo vitale, credo che a tutti noi non piaccia cambiare, anzi, generalmente, preferiamo che il nostro mondo rimanga invariato, stabile, fatto di una quotidianità ben nota, a grandi linee sempre uguale a se stessa, che dà sicurezza perché ci chiede solo comportamenti abitudinari. Ciò che da noi è già conosciuto e sperimentato non crea ansie, non genera preoccupazioni e quando ci apriamo al confronto con l’altro, per libera scelta o perché costretti dalle vicende dell’esistenza, non lo facciamo perché ricerchiamo il cambiamento, ma soltanto per riaffermare la giustezza delle nostre idee, dei nostri valori, della nostra specifica identità.
Il profondo bisogno di identità, cioè sapere chi siamo, comprendere qual è la nostra specificità e cosa facciamo in questo mondo, il nostro ruolo e i nostri compiti, ci conduce a percepire il cambiamento come un processo rischioso, generante ansia, che vorremmo volentieri rimandare ad un domani non ben definito. Però, che ci piaccia o no, il mondo, la natura cambiano fisicamente ogni giorno: basti pensare alle trasformazioni prodotte dall’effetto serra e dai cambiamenti climatici, oggi facilmente percepibili da tutti; inoltre, il mondo cambia socialmente, economicamente e culturalmente per gli effetti della rivoluzione informatica e tecnologica e noi, se non vogliamo morire, ob torto collo, siamo costretti a cambiare.
Il nostro gruppo è composto da persone che hanno sofferto e soffrono di malattie psichiatriche, da studenti universitari, da volontari laici e religiosi, da operatori del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Toscana Centro: siamo uno spaccato di umanità eterogenea, un potpourri di anime diverse, un gruppo che ha assunto l’incontro e la convivenza con la “diversità dell’altro” come valore etico e come valore formativo appunto per promuovere il cambiamento. A queste diversità, soggettive interpersonali, abbiamo unito il ‘catapultarci’ in un altro mondo, in un’altra nazione con una natura, un clima, delle tradizioni sociali, religiose, economiche e culturali profondamente differenti dalle nostre. In questo mondo ‘altro’, noi cerchiamo l’incontro con la “diversità”, perché siamo profondamente convinti che l’incontro fra diversità favorisca il benessere, la crescita e la maturazione di tutte le persone coinvolte.
Per far sì che l’incontro fra diversità sia fecondo e non generi processi distruttivi è indispensabile coltivare quello che gli inglesi chiamano caring, cioè il prendersi cura di noi stessi, dei nostri bisogni, contestualmente attivandoci per prenderci cura dell’altro e delle sue necessità. La ‘dimensione del prendersi cura’ è un aspetto imprescindibile rispetto alla possibilità di favorire un cambiamento positivo. In parole povere, se non ci prendiamo cura delle nostre relazioni e dei nostri rapporti, i cambiamenti che favoriremo saranno solamente trasformazioni superficiali, di facciata e non incideranno minimamente nella sfera dei valori.
Se per noi l’incontro con il diverso, con la diversità che non ci fa dormire sonni tranquilli è un valore, noi non possiamo insegnarlo né agli italiani né agli indiani perché l’universo valoriale può essere solo testimoniato attraverso uno stile di vita, una pratica del Fare-assieme dove ogni soggetto, con le proprie risorse e nonostante i propri limiti, si senta protagonista, si percepisca creatore del cambiamento in atto.
In questo viaggio verso il cambiamento, oltre a valorizzare la soggettività di tutte le persone coinvolte, per noi è fondamentale che nessuno rimanga indietro e qualora questo avvenga il gruppo si ferma e si fa carico della persona che presenta difficoltà, in modo tale che alla meta si giunga tutti assieme, attraverso un cammino che viene percorso nella condivisione più piena, completa. A tale proposito vorrei citare quanto scrive Alessandro D’Avenia nel suo libro ‘L’arte di essere fragili’: “I latini per “curare” usavano la parola colere da cui cultum, da cui “cultura” (l’agricoltura non era altro che il prendersi cura del campo). La cultura non ha nulla a che fare con il consumare oggetti culturali: ci si illude che consumando più libri, più musica, più quadri, si acquisisca più cultura. Conosco persone che consumano tantissimi oggetti culturali, però questo non le rende più umane, anzi spesso finiscono con il sentirsi superiori agli altri. Cultura vuol dire stare nel campo, farlo fiorire, a costo di sudore. Significa conoscere la consistenza dei semi, i solchi della terra, i tempi e le stagioni dell’umano e occuparsene perché tutto dia frutto a tempo opportuno.”
Che ruolo ha il lavoro nei processi di cambiamento?
Un ulteriore aspetto fondamentale del nostro progetto è legato alla dimensione lavorativa, cioè a tutte quelle capacità riflessive e di operatività manuale che ci consentono di modificare l’ambiente in cui viviamo per renderlo più consono ai nostri bisogni. Molti anni fa, quando ero agli inizi della mia formazione psicoterapeutica, il dottor Mario Santini mi disse: “Ricordati che se c’è ordine e salute nella mente di una persona ci può essere disordine nell’ambiente in cui vive, ma se non c’è ordine e salute nella mente di una persona non ci può essere disordine nell’ambiente in cui vive!”.
Fedele a questo insegnamento, ho sempre ritenuto che se promuoviamo un’azione nell’ambiente di vita di alcune persone e, soprattutto, se coinvolgiamo le persone stesse in questo processo invitandole ad attivarsi, a svolgere attività concrete per far fronte alle loro necessità, tutto questo promuove soggettività, protagonismo e quello che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama Empowerment.
Quest’anno è stato particolarmente significativo l’intervento nelle case dei poveri. Le suore del Rosary Convent conoscono molte famiglie che vivono in una situazione di precarietà lavorativa o addirittura di vera e propria indigenza. A queste famiglie viene chiesto se farebbe loro piacere rimbiancare la loro casa e qualora la risposta sia affermativa, nei giorni successivi, con un gruppo di cinque, sei persone ci rechiamo presso le loro abitazioni e iniziamo a pulire, raschiare l’intonaco e rimbiancare gli ambienti interni ed esterni della casa. La prima famiglia che abbiamo incontrato, di religione Indù, ci ha accolto con cordiale disponibilità; solo il nonno ci osservava con uno sguardo dubbioso, ma, quando ha potuto constatare che noi lavoravamo di lena, senza concederci pause, i suoi occhi severi si sono un po’ addolciti.
Durante il lavoro potevamo entrare in tutte le stanze, spostare le suppellettili, togliere la polvere, il sudicio accumulato nel tempo, raschiare i muri e poi iniziare a tinteggiare. Solo la stanza delle divinità Indù, la stanza dei riti religiosi della famiglia ci era preclusa. Il capo famiglia aveva avuto un ingaggio lavorativo e per questo non era presente, la moglie, a metà mattinata, ci ha preparato il tè con banane fritte e dolci tipici a base di cocco. La figlia e il figlio di 15 e 17 anni si sono messi a lavorare con noi fin dall’inizio e, nonostante le difficoltà della lingua, siamo riusciti a creare un bel rapporto di amicizia. Tutti assieme, alla fine della mattinata, eravamo riusciti ad imbiancare due camere e la facciata dell’ingresso, quindi mancava ancora molto lavoro da fare. Il giorno seguente, quando ci siamo ripresentati, il lavoro di imbiancatura era stato finito dal padre che, rientrato dal lavoro, insieme ai figli, aveva portato a termine tutta l’attività di imbiancatura e a noi non rimaneva altro che iniziare a scartare e tinteggiare gli infissi. Alla fine della seconda giornata di lavoro, la casa era irriconoscibile ed eravamo tutti molto soddisfatti; durante i saluti il nonno ha stretto la mano a tutti i componenti del gruppo. Sono gesti simbolici, estremamente significativi e dimostrano che le persone povere non amano l’inattività, la rassegnazione, l’immobilità, ma preferirebbero di gran lunga lavorare per uscire dallo stato di miseria, prendendosi cura di se stessi e del loro ambiente di vita. Certo, se non c’è nessuno che dà loro credito, queste risorse rimangono sopite e non si attivano.
La medesima situazione si è ricreata quando siamo andati nell’abitazione della seconda famiglia, questa di religione cattolica, composta da madre e due figli adolescenti di 18 e 16 anni. Questi ultimi non solo si sono messi a lavorare con noi fin dal nostro arrivo, ma hanno chiamato un loro amico per darci una mano: l’ennesima dimostrazione che l’intervento del Fareassieme-Empowerment è contagioso e crea benessere nelle persone coinvolte.
Credo che il nostro intervento abbia molte corrispondenze con la filosofia dell’economista bengalese Mohammed Yunus, ideatore e realizzatore del Micro Credito moderno, ovvero un sistema di piccoli prestiti e opportunità offerte a persone con difficoltà economiche per uscire dallo stato di povertà. Con il nostro intervento pensiamo di offrire delle occasioni alle famiglie povere e agli ospiti del Settlement allo scopo di farle uscire dallo stato di apatia, inerzia, rassegnazione per far sì che riprendano in mano, attraverso il lavoro, la propria capacità di cambiare la realtà circostante e renderla più corrispondente ai propri bisogni.
Quando, però, entriamo nel Settlement di Kochin o nella Casa dell’Amore di Kolayad, possiamo constatare che i manicomi sono uguali in tutto il mondo e somigliano all’Ospedale Psichiatrico di San Salvi a Firenze, al manicomio di Volterra o a quello di Arezzo. Quanto scritto da Goffman, oltre cinquant’anni fa nel suo libro “Asylum”, risulta essere, purtroppo, sempre attuale e vero.
Il nostro gruppo di persone, diversamente sane, cerca di portare all’interno del Settlement un messaggio incentrato sul rispetto della dignità umana e sulla salvaguardia dei diritti dei suoi ‘ospiti’. E tenta, con determinazione ed entusiasmo, di trasmettere questo messaggio attraverso il Fareassieme-Empowerment, cioè chiamando, coinvolgendo tutti gli ospiti del Settlement a lavorare insieme a noi per rendere l’ambiente in cui vivono più decoroso, più rispettoso della loro dignità e dei loro diritti di cittadinanza.
Dr. Lamberto Scali, Responsabile del Progetto “ Cittadini del Mondo – Passaggio in India 2016”.