“Passaggio in India” è un progetto che ormai da nove anni si propone l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei cittadini indiani presenti nella struttura del Settlement (manicomio) di Cochin (Kerala) attraverso lavori edilizi e interventi a sfondo terapeutico. Si propone l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita attraverso la politica del “Fareassieme-Empowerment”, vale a dire stando insieme, lavorando fianco a fianco incessantemente e vivendo un rapporto peer to peer di scambio. Perché forse è così che si cresce e si accresce costantemente il nostro “formarci”, scambiando con l’altro tutto ciò che abbiamo di meglio da offrire.
Nove anni di progetto: soliti posti, stessa avventura; siamo in diciotto anche quest’anno tra dottori, volontari, studenti e ragazzi della Polisportiva Aurora.
Tutte queste assonanze farebbero pensare alla monotonia, alla ripetizione sistemica delle attività, dei viaggi, delle modalità; insomma, dei giorni. Invece non è così. No, ogni anno è una nuova esperienza, sia per le persone che partecipano al progetto, che, soprattutto, per l’India stessa. Partiamo con la consapevolezza, chi piu’ e chi meno, che in India cambiera’ qualcosa. Parliamo di promozione della salute mentale, e in un primo momento prevale la superbia intellettuale, l’idea di portare le conoscenze occidentali in un mondo “retrogrado”, ma poi ci si accorge gradualmente in un crescendo tumultuoso di ironia mista a stupore della superficialita’ e dell’antropocentrismo di questo pensiero, di come siamo noi ad essere “curati”, e piano piano ci liberiamo di quest’idea cancerogena, malata. Sì perché spesso siamo proprio noi, esploratori di altri mondi, a cambiare maggiormente.
L’India diventa una sorta di terapia psico-fisica per chi la vive, altro che xanax; la tranquillità nei confronti della vita nasce dalla vitalità che ci viene trasmessa dagli indiani stessi. C’è sempre, per chi guarda attentamente, qualcosa che non è stato colto, aspetti nuovi e inesplorati, colori, odori e sensazioni non provate fino ad allora. E ci sono anche le cose imperiture, quelle che pur ripresentandosi costantemente meravigliano per la loro spontaneità. Come i sorrisi… quanto sono belli i sorrisi degli indiani; sono capaci di trasmettere nel medesimo attimo un senso di pace e di serenità per l’atto inaspettato, ma in ugual modo sconcertano perché noi siamo lì, intrusi calati nel loro mondo, eppure l’incontro con il diverso non li intimorisce, anzi, li incuriosisce e li stimola ad essere cordiali. Non esiste la paura dell’altro, ma l’apertura nei confronti dell’alterità.
E poi ci sono gli sguardi, quelli intensi, quelli umani, veri. Questi sono capaci di compenetrarti mettendoti a nudo, perché nella vita metropolitana che siamo soliti vivere, tra le corse mattutine per andare a lavoro o all’universita’, non ci si guarda mai passando per la strada, evitiamo di sederci accanto a qualcuno su un autobus per non dover sopportare quel minimo di contatto fisico, siamo assenti o assorti nei nostri pensieri, in una specie di oblio antisociale. Loro invece abbracciano, avvolgono e coinvolgono con la loro espressività e coi loro modi.
Ma la cosa più disarmante è pensare alla loro vita, all’estrema povertà in cui sono costretti e pur essendo poveri di beni materiali, sono assai ricchi di valori spirituali rispetto ai quali non si può rimanere indifferenti, di un patrimonio ineguagliabile caratterizzato dalla loro voglia di vivere.
Stiamo apprendendo tanto, più di quanto riusciamo a dare.
E pensare che siamo solo alla prima settimana…chissà quali altre sorprese ci riserverà questo bagno di umanità.
La paura maggiore sarà, poi, quella di ritornare in italia. L’assenza dell’India sarà come un batacchio di ferro che dondola in aria, che risuona nelle menti di chi l’ha vissuta, incessantemente.