Quando ho visto il manifesto in giro, al ritorno dalle vacanze, ho sobbalzato. Il primo ottobre 2016, al Politeama, i Menestrelli Pratesi. Non è possibile. Non è umanamente possibile. Poi ho letto meglio: C’erano una volta, e ci sono ancora, I Menestrelli Pratesi. Una serata tributo a una realtà musicale (e teatrale, oserei dire) del nostro passato prossimo. Troppo tardi, la lacrimuccia era già andata.
Partiamo dall’inizio. Il gruppo nasce negli anni ’60, ed è indelebilmente legato al Cantar Maggio e alle feste popolari e paesane. Però la vera fama, la vera gloria, arriva più tardi, verso la fine degli anni ’70. C’era una volta TV Prato 39, (e c’è ancora, anche se meno naif di quella di un tempo), gloriosa emittente di zona, sempre attenta al territorio. E c’era una volta il “Musicalcentro”, storico negozio di strumenti musicali con studio di registrazione annesso, nella monumentale sede a due piani di Via del Serraglio (anche questo resiste ancora, anche se, ridimensionato, in altra sede).
Al piano superiore si vendono pianoforti e chitarre, a quello inferiore si tengono lezioni di chitarra e in una stanza si ricava un piccolo studio televisivo. Cosa servono? Due luci, un gruppo che suona, un presentatore stralunato ma brillante, e tante canzoni della tradizione. L’idea è dei fratelli Cianchi, proprietari del negozio in questione: lo show si chiama “Cose di casa nostra”. E’ lo show che manca per una televisione locale che si rispetti. Andava in onda il giovedì, mi sembra. E’ andato in onda per anni, cambiando poi anche sede, teatri di posa, collocazione. E quando non c’erano puntate nuove, giù di repliche. Una certezza, nei palinsesti dell’emittente.
Lo spettacolo aveva smaccatamente come target le nonne: la protagonista, sotto forma di canzoni e scenette, di poesie e barzellette, era la Prato di una volta. Quella degli anni ’50 e ’60. Quella i cui ricordi erano sempre vivi e brillanti. Il canto del fuoco, le canzoni dell’aia, i personaggi della Prato che furono. Una rosa di cantanti, fantasisti e fini dicitori si alternavano davanti alle telecamere tutte le settimane. E c’era una resident band. Una band formata da professionisti e non, ma ciò che più contava, da assoluti “personaggi”. Ognuno aveva un proprio ruolo. Non c’erano comprimari. Una specie di E Street Band locale. Erano, appunto, I Menestrelli Pratesi. Vado a memoria per i nomi: Aldo Mungai alla chitarra (meraviglioso stornellatore, nonché barbiere di Via Ser Lapo Mazzei), Leoniero Simoncini al mandolino (la cui corporatura imponente era assolutamente in contrasto col piccolo strumento che suonava), Dante Tempesti al contrabbasso, il maestro Joe Fraternale alle tastiere, Paolo Paoli alla batteria (nonché alle canzoni in inglese, specializzato nel repertorio di Frank Sinatra. Probabilmente era l’unico che lo sapeva, l’inglese), i fratelli Ferraro e Roberto Cianchi, violinisti con decennale esperienza orchestrale, direttori artistici dell’intero progetto, sia musicale che televisivo. Spero di non aver dimenticato nessuno. Non so quanti di loro siano ancora tra di noi. E poi c’erano le grandi voci della zona. Le voci che davano lustro ai Menestrelli Pratesi.
Non c’era un leader, c’era una rosa di cantanti. Primo tra tutti Rodolfo Baccini, il nostro Narciso Parigi. Suo l’inno alla città (Voglio cantare a te, città di Prato) sia quello per la squadra di calcio biancazzurra (Forza Prato, pratesi noi siamo). Un uomo dalla vocalità non educatissima ma dalla cui ugola fuoriusciva tutto l’amore che aveva per questa terra. Un altro pezzo del Baccini che mi è rimasto indelebilmente nella memoria era quello sul Lago di Cerreto, descritto come un “angolo di cielo”. Sì, era una citazione da “Love in Portofino”, ma cosa importa?
Poi c’era Renato Ciolini, Paolo Biancalani, il comico Fazio… Difficile ricordarli tutti, last but not least, Marileno e Laura Querci, marito e moglie, i veri professionisti della nostra canzone, genitori tra l’altro di due professionisti dello spettacolo (Silvia Querci, cantante di musical, e Sandro Querci, attore e regista). Una vita di successi con l’orchestra di Riz Ortolani, incisioni discografiche e tournee, le vere punte di diamante di tutto il gruppo. Effettivamente le loro voci avevano qualcosa in più rispetto all’amabile cialtroneria di altri presenti. Siamo nell’ambito del bel canto all’italiana, quello tradizionale, coi finali con l’acuto. E poi, c’era Alfiero Rosati. Il conduttore stralunato ma simpatico. Un folletto dalla figura esile e allungata, con delle giacche e delle cravatte rigorosamente degli anni ’70 e un lessico sui generis fatto di parole ricercate e parole in dialetto, un vocabolario che ricordava più o meno quello del babbo di Benigni quando voleva fare il forbito. Improvvisatore, affabulatore, ti strappava una risata anche quando stava zitto.
Il repertorio andava dalla tradizione allo stornello, dal cha cha cha al classico alla Sinatra, dal pezzo da operetta all’ottava rima. Tutto quello che era nella memoria collettiva. Esistono anche due dischi, tuttora acquistabili presso il Musicalcentro, di quel repertorio. E’ vero, qualche canzone, spacciata per tradizionale pratese, in realtà erano riadattamenti di canzoni di un cantautore viareggino e originariamente scritte per Viareggio (ne abbiamo parlato qui). Quando l’ho scoperto ci sono rimasto malissimo.
Ma è un peccato veniale, vuol dire che certe tradizioni sono più legate al tempo che non al luogo. Spero solo che lo spettacolo del primo ottobre renda veramente giustizia ad un momento così articolato e complesso della nostra tradizione.