Verzino fissava sgomento il triste spettacolo che aveva davanti agli occhi. Scosse la testa e si aggiustò i calzoni: presto li avrebbe persi perché nelle stagioni a venire avrebbe mangiato ben poco.
Un gruppetto sparuto di donne, bambini e qualche vecchio fissava quello che restava della chiesa di San Martino in Vergaio. Si aggiravano lenti tra le pietre dei muri riverse a terra e i legni spezzati delle panche, sotto quel cielo tetro che prometteva pioggia, come grigi fantasmi.
Verzino scosse la testa e si grattò con forza tra i capelli. Un insetto scappò via dal suo caldo rifugio. Pensare che il prete voleva portarli proprio lì dentro. Diceva che nessuno avrebbe osato profanare quel luogo sacro. Diceva che era l’unico posto dove avrebbero potuto salvarsi. Fortuna che Verzino aveva il vizio di non dare mai retta a nessuno. La sua povera mamma, fin quando aveva avuto vita in corpo, aveva continuato a ripetergli che era tutto suo padre: testardo come un vecchio mulo e duro come il marmo di Figline. Non gli era mai parso un gran complimento soprattutto perché quella povera e santa donna quando lo diceva pareva sputasse veleno. Verzino, comunque, trenta inverni sulle spalle e la fatica dei campi nelle braccia, aveva portato la sua famiglia e chi lo aveva voluto seguire ben lontano da quella chiesa, da Vergaio e da quel fosso che è il Bardena. Aveva imparato a riconoscere l’odore dei soldati ancor prima che si mettessero sotto vento.
Fissò il cielo scuro e fece una smorfia. L’inverno era ancora il padrone assoluto e la carestia la sua degna sposa: genitori prolifici di una serie di cattive stagioni. Ci mancavano solo le soldatesche di Castruccio a complicargli l’esistenza. Se qualcuno gli avesse insegnato a far di conto, non gli sarebbe bastata una giornata intera per enumerare i fanti e i cavalieri che erano sciamati come cavallette nella piana scorrazzando a loro piacimento, razziando e distruggendo fin sotto le mura di Prato.
Il gran signore non si era certo preoccupato della gente che in quella piana ci viveva, né di come gli zoccoli dei cavalli e gli stivali dei soldati avrebbero rovinato campi e vigne e neppure di quello che i suoi soldati avrebbero fatto alle case e alle persone. Il suo mestiere era quello di far guerra, non di zappare la terra.
Verzino sospirò. Lo stomaco vuoto brontolava. Protesta inutile.
Vergaio era una delle tante ville del contado di Prato e quel che ne rimaneva era ben poca cosa. Anche nei giorni di festa e con il sole sulla testa, non era certo un paese enorme. Il prete, in quell’anno del Signore 1323, parlava di un gregge minuto: meno di un centinaio di anime sparse per i campi.
Campi dove Verzino aveva imparato a barcollare quando era solo un bambino, dove aveva sudato fin da ragazzo, dove era diventato uomo e dove spesso aveva versato le sue lacrime. La fatica della semina, la gioia del raccolto. La rabbia per le carestie, il dolore della fame. L’odore della terra bagnata dalla pioggia. I muri di quella vecchia chiesa dove aveva preso moglie. Non c’era niente come la propria casa.
Verzino si asciugò gli occhi con la manica della camicia. Commuoversi non era roba da uomini. Vide in lontananza una figura dai contorni familiari staccarsi dal gruppetto intorno alla chiesa e avanzare dritto verso di lui. Difficile da ignorare: era l’unico altro uomo; tutti gli altri, giovani o abbastanza validi, erano a combattere da qualche parte o erano già morti. Verzino sputò per terra. Era Vanni. Detestava Vanni. Abitava a Iolo e vendeva funi. Ci poteva essere un mestiere peggiore? Che era venuto a fare? A ridere delle loro disgrazie? Si era accasato con una lontana parente di una sua cugina e quella specie di familiarità non gli era mai piaciuta. Fece una smorfia e pestò per terra le scarpe legate sopra le caviglie. Le zolle erano dure, gelate.
Vanni si strinse la cintura dei calzoni. Era secco come un chiodo. Allargò le braccia e scosse la testa pelata. Non c’erano parole adatte per descrivere quella sciagura. Con una mano piena di calli indicò prima la chiesa e poi quello che restava della vigna. Verzino grugnì. Non voleva dargli soddisfazione e meno che mai voleva iniziare una conversazione. Vanni, di un’età indefinita e vestito con gli stessi stracci incolori di Verzino, restò in silenzio qualche minuto, sospirò rumorosamente un paio di volte e poi si congedò con un mesto sorriso. Dondolando pigramente si allontanò tra i campi verso casa. Un cane più secco di lui gli scorrazzò dietro.
Il contadino si volse dalla parte opposta, convinto di non aver niente da spartire con quel tipo smilzo che passava tutto il tempo chiuso da qualche parte a far di corde. Tirò su con il naso, drizzò la schiena e vide sua moglie avvicinarsi piano. Certo non era più quella bella ragazza piena e sorridente di un tempo. Non aveva più la pelle candida come la neve, gli occhi freschi come la rugiada e il sorriso luminoso di una stella al mattino. Il viso pareva una mela vecchia, gli occhi erano segnati dalle rughe e le mancavano due denti, ma aveva ancora lo sguardo vivo e il sorriso gentile di quando l’aveva vista per la prima volta al mercato. Anche lui, a onor del vero, non era più il ragazzotto di quei giorni: non era forte e vigoroso come allora, aveva meno capelli e la schiena a pezzi ma non si lamentava.
Giuntina lo fissò dritto negli occhi, com’era usa fare: “Secondo te la ricostruiranno?”
Verzino fissò la chiesa e tutti quei fantasmi vestiti di stracci che ci giravano intorno. “Vedrai di sì. Qualche signorotto di Prato che deve farsi perdonare dei peccati o che va in cerca di lodi ci sarà di certo.”
La donna annuì convinta. Starnutì. “Chi era quello di prima?” Gli zoccoli di legno che aveva ai piedi non la riscaldavano abbastanza.
Verzino si strinse nelle spalle con falso disinteresse. “Il Vanni.”
Giuntina assentì di nuovo. “Mi pareva…” Si strinse nello scialle pesante e si aggiustò il fazzoletto sulla testa. Era davvero freddo.
“E che dice?”
“Che vuoi che dica.” Un bambino cominciò a piangere. Verzino scrollò la testa. Poverino. “Non è mica di Vergaio, lui.”
“E che vuol dire?” Giuntina spostò piano lo sguardo dal marito al prete che cercava di consolare il bimbo.
“Che vuol dire che?” Verzino incrociò le braccia sul torace e si sforzò di concentrarsi sul ragazzino. Per fortuna i suoi tre figli erano tutti ancora troppo piccoli per servire come soldati.
Giuntina fece quello che faceva sempre: lo ignorò. “Hanno avuto i campi rovinati anche loro?”
Verzino annuì. Il bambino urlava con tutto il fiato che aveva in gola e batteva i piedi per terra come se volesse scuotere il creato intero.
“Come noi…” La donna fissò la terra per qualche istante e poi alzò di nuovo lo sguardo sul marito. “Le vigne e le case?”
“Distrutte, incendiate” sentenziò il contadino.
“Come le nostre… e la gente?” Giuntina sgranò gli occhi. “Dov’è andata a nascondersi?”
Verzino ci pensò un attimo. “Nelle chiese, in un’altra villa… lontano da Prato.”
“E i ragazzi? Gli uomini?” Distratta, Giuntina scosse la testa con aria di rimprovero: quel bambino non riusciva a star zitto e il prete non sembrava di grande aiuto.
Verzino chiuse gli occhi. “Andati.”
“Come i nostri…” Sospirò, incrociò le braccia dietro la schiena e si dondolò appena sui piedi. Giuntina non voleva arrendersi a quel disastro. “E le tasse?”
“Non le pagheranno per qualche stagione: troppo poveri.”
Verzino pensò che in un certo senso poteva essere l’unica buona notizia.
“Come accadrà a noi…” La donna sciolse le braccia. “E pensare che io credevo di aver capito che abitava in un altro posto…”
Risoluta, con i suoi stracci grigi, le rughe e il sorriso rovinato dalla mancanza di due denti, lasciò il marito a domandarsi che cosa avesse voluto dire: se non ci pensava lei a far tacere quel bambino, con tutti quegli strilli avrebbe finito per buttar giù quel poco che restava della chiesa!