Da un certo punto avevo iniziato a guardarle i piedi. Stavamo correndo lungo via di Cantagallo. Dei sandali di corda le stringevano i piedi, avvolgendone la forma esile e scavando dei piccoli segni sulle parti interne ed esterne di essi. Un laccio – mi sembrava troppo stretto – le arrossava il calcagno. Forse, di lì a poco, le sarebbe spuntata una vescica colma d’acqua. Guardavo ancora i suoi piedi: mi sembravano zampette di coniglio, le davano la spinta per andare sempre più forte, incuranti del caldo che ci stava sfiancando. Lentamente sentivo, metro dopo metro, il suo respiro crescere, farsi più pesante, addensarsi in una nuvola bianca d’afa dove lei sembrava sparire.
Lasciandosi la gelateria Ciacco alle spalle – ricordo che la radio suonava a tutto volume With or without you degli U2 – svoltò a destra in via dei 29 Martiri, costringendomi a fare lo stesso. Adesso erano i suoi polpacci che fissavo, carne cosparsa di una leggera peluria bionda, visibile solo quando illuminata dal sole. Nel percorrere la salita lieve, le gambe si facevano tornite e rosate. Ad ogni falcata, i muscoli le facevano capolino sulla pelle, disegnando delle rientranze ipnotiche.
Conosceva Figline come le sue tasche: ci era nata e cresciuta. Io no. Non potevo prevedere le sue prossime mosse; a quel tempo non ero capace di immaginare dove avrebbe inaspettatamente inchiodato o quale direzione avrebbe preso. Passai di fianco al Monumento ai Caduti e fui colto da un desiderio febbrile di affondare le mie mani nelle sue gambe. Con un braccio avrei potuto immobilizzarla dal fianco, poi le avrei ficcato le dita nella carne morbida della coscia. Se l’avessi immobilizzata, non avrebbe potuto più scappare.
Sulla nostra destra, un uomo e una donna stavano pulendo dei fagiolini nel cortile davanti casa. Mi voltai a guardarli e questo mi fece perdere qualche metro. Di risposta, la sua corsa riacquistò forza. Mi domandavo come facesse ad andare sempre più veloce. Sentivo le mie gambe appesantirsi, sentivo i piedi fatti di sabbia bagnata, le mani gonfie e pulsanti di sangue. Lei, invece, sfrecciava come un ghepardo, era già arrivata in piazza dei Partigiani, inafferrabile. Non che nei mesi precedenti non lo fosse stata, ma adesso quella distanza era diventata fisica, la potevo misurare coi miei occhi. Quanti metri erano? Cinquanta? Forse cento. Fatto sta che in quel momento, per la prima volta, mi parve andata per sempre, come se i suoi balzi svelti stessero rimarcando una lontananza che era cresciuta nei mesi, ma che mai si era materializzata così, strada dopo strada.
Di tanto in tanto, la brezza leggera le alzava la gonna, rossa a fiorellini bianchi. Le pieghe le accarezzavano le cosce, lasciandomi intravedere le mutandine di cotone bianco. Apparivano e scomparivano, immortalando quell’immagine in un fotogramma carico di sensualità. Poco più in là sentivo scorrere il ruscello: mi sembrò che mi incoraggiasse, compagno silenzioso della mia corsa. In certi suoi balzi, Matilde si colpiva con i piedi il sedere sodo, le cui forme si lasciavano indovinare dalla veste, in alcuni punti fattasi più scura per il sudore affiorato sulla pelle. Dunque, pensai, il caldo aveva colpito anche lei. Se amavo già Matilde? Forse sì, forse no. Allora, ancora, non potevo saperlo. Qualche giorno prima, – io ero al bar Mila con la mamma, lei passeggiava con il fratello più grande lungo la via principale – avevo guardato da lontano le sue labbra rosse succhiare una pesca, tirarne dentro il succo fin quando dei goccioloni le avevano bagnato la mano sporca di terriccio. A ripensarci adesso, anche quell’immagine aveva risvegliato in me qualcosa, qualcosa di sepolto e di sopito, ma pronto a sbocciare. Ma cosa potevo saperne in fondo, allora?
Mentre correvo a perdifiato lungo via degli Aranci alzando la polvere non la perdevo mai di vista, svelta come un leopardo. E nella foga di acchiapparla a un certo punto scivolai, sbucciandomi il ginocchio destro. Prima l’acqua della pesca, adesso era il mio sangue a scivolarmi caldo lungo la gamba, una linea retta che a un certo punto ripiegava verso l’interno, sparendo nel calzino.
Quando mi rialzai, di lei non vi era più traccia. Non c’era davanti a me, non c’era nelle viuzze che si snodavano lateralmente, non era nemmeno tornata indietro. Istintivamente guardai anche in alto, cercandola in cielo. Gridai il suo nome, la prima volta con forza; poi, con tutta la rabbia che avevo in corpo. La mia voce deformata tornò sui luoghi di Figline che avevamo attraversato insieme: si tuffò nel ruscello con cui avevo corso insieme, mano nella mano, si arrampicò in alto per le strade scoscese e ciottolose, rotolò di nuovo giù, si fermò davanti alle scuole. Ma Matilde non si fece trovare. Scoppiai a piangere, dando sfogo all’ultima dose di rabbia che mi era rimasta. Non servì a niente: dopo minuti di lacrime e singhiozzi, mi asciugai il viso con la manica della maglietta e sentendomi ridicolo, tornai a testa bassa verso casa.