Scrivere su Tavola, farmi venire in mente qualcosa. Io quarantottenne nato e cresciuto in un quartiere di quasi centro, staccato per un dolore precoce dalla mia casa appena fuori dalla Porta pistoiese, devo trovare le parole da stendere sulla pagina bianca per parlare di quella pianura slanciata verso sud. Io, che non ci sono nato, che non ho giocato a nascondino né mi sono innamorato lungo le sue strade; che non ne ho frequentato la parrocchia, né mi sono trascinato per sabato sera inconcludenti e uguali a giocare a carte o bere al circolo.
Eppure, Tavola.
Se penso a questa frazione di Prato la prima immagine che mi viene in mente è un mio compagno delle superiori che divertito ripeteva sempre: – Ma quando gli abitanti di Tavola si preparano per il pranzo diranno anche loro andiamo a tavola? –. Poi si voltava verso di me, pratese catapultato nella provincia di Firenze e rideva, rideva ogni volta prendendomi in giro perché parlavo strano. Ed io ero contento di essere considerato diverso per il mio accento e di avere ancora addosso il segno linguistico delle mie origini.
Ecco cosa riemerge subito dalla memoria lontana. Poco per portare in fondo un racconto, no? Devo scivolare lungo ottomila battute alla fine delle quali i lettori (se ci saranno) dovranno aver voglia di uscire in un sabato di sole e farsi un giro da quelle parti. O anche solo pensare che Tavola esiste.
Già. Google. Perché non ci ho pensato prima? Settimane a cercar di raccattare un’ispirazione, tentativi di rubare la memoria altrui: – Conosci mica qualcuno di Tavola con cui parlare? –, giorni di ansia da prestazione narrativa quando ho a disposizione uno sciocco motore di ricerca. Mi siedo e con calma digito sulla tastiera “Tavola, Prato”, un clic e lo schermo si popola di storie, numeri, fotografie: in meno di venti minuti posso saltare settimane di indagini e spacciarmi per un tavolese doc.
A proposito: come si chiamano gli abitanti di Tavola? Tavolesi, tavolieri, tavolini? Meglio non scherzare. Non si fanno battute sui quartieri: comunità solidali i cui componenti sono pronti ad azzannarti anche solo per il debole sospetto che tu li voglia prendere in giro. Bene: tavolesi. Su questo ci siamo. È già un punto di partenza. Leggo ancora. C’è una squadra, il Tavola calcio, fondata nel 1924 e subito immagino odore di spogliatoio, un campo fangoso di provincia, tacchetti, parastinchi e quell’allenatore un po’ padre che racconta, quando ne ha voglia, di Roberto Badiani: gloria locale del pallone a cui negli ultimi anni, le cronache narrano, hanno rubato tre biciclette.
Continuo a leggere: tremilacinquecento abitanti, trentanove metri sul livello del mare. Ovvio. Non si chiamerebbe Tavola, altrimenti. Dal latino tabula, pianura; non padana bensì pianura pratese. Eh sì, perché anche noi ne abbiamo una; magari non grande e famosa come l’altra, eppure, allo stesso modo, composta di prati, alberi e animali un tempo perfino esotici. Si dice vi fossero pavoni e daini bianchi e io non me li immagino a correre liberi da quelle parti, appena fuori città.
Un’altra idea: potrei narrare del viaggio in bicicletta di un adolescente innamorato che si spinge fino alle Cascine di Tavola e si getta su un prato, sfinito e disperato. No, non se ne parla. E poi cosa c’entra Tavola con le pene d’amore? Un adolescente deluso lo puoi trovare ovunque. Tavola come New York, lacrime identiche dappertutto.
Ecco un buon argomento, piuttosto: le Cascine di Tavola. Se ne parla da decenni. Comitati, iniziative, degrado, sfortuna. Eppure se in Toscana evochi “le Cascine” tutti pensano subito a Firenze, al meraviglioso parco che si estende dal Piazzale del Re fino al ponte all’Indiano che prende il nome dal monumento eretto per ricordare un principe morto giovane in quella città. Naturale convergenza verso il carattere più forte. Magnetismo che attrae e assorbe chi è meno famoso. Primogenitura linguistica. Concetto soffiato dal capoluogo onnivoro e non più disponibile nel comune pensare. Un po’ come chiamarsi Moravia e voler scrivere, Morandi e provare a dipingere o cantare. E invece anche noi pratesi abbiamo le nostre Cascine. Chi l’avrebbe detto! Lorenzo il Magnifico che alla metà del ‘400 fa costruire da Giuliano da Sangallo una villa con annessa fattoria, alla ricerca di un modello esemplare di produzione. Boschi, canali, campagna: non sembra la stessa città dell’odore di lana, del rumore dei telai e degli uomini sordi e con meno di dieci dita. Anch’io la prima volta che le ho percorse in bicicletta ho pensato: “È ancora Prato questa, così silenziosa?”
Eppure è Prato e ne ha tutto il diritto. Da adolescente esaltavo agli occhi degli amici fiorentini la mia città, raccontando quanto fosse vasta. Sì, una città diffusa, composita, industriale e contadina, colta e ignorante. Chissà, in tutto questo, qual è la sua vera anima, sempre che ne esista ancora una. Forse quella degli uomini e le donne di provincia, abituati al lavoro della terra, alle bestie, alle stagioni. Quegli stessi uomini e donne che hanno patito un’alluvione. Anzi, “l’alluvione”: quella del ’66.
Ancora una volta Tavola fu sfortunata, e non solo per il disastro.
Per tutti l’alluvione fu sempre e solo una e i fiorentini ne rivendicano il primato, se di primato si tratta. Le opere d’arte e le vie allagate da quell’Arno d’argento che si trasforma in un nemico novembrino impazzito; e poi gli angeli del fango, gli Uffizi e le televisioni da ogni parte del mondo.
E a Tavola cosa resta? Poco spazio. Solo qualche ricordo tramandato. Eppure quei giorni furono anche Ombrone e Calice, fotografie in bianco e nero, sofferenza sconosciuta, carcasse gonfie di bestie annegate rimaste imprigionate fino a scoppiare. E poi un vecchio incontrato per caso che può ancora raccontarti, con gli occhi lucidi, degli uomini che di notte sparavano colpi di fucile dai tetti per farsi sentire e chiedere di essere salvati, o di quegli altri riparati sugli alberi per scampare alle acque, delle risaie allagate e della furia che risparmiò il cimitero, quasi un pentimento tardivo trasformato in rispetto dovuto a chi è inerme e non può più fuggire.
E il Macrolotto? Anche quest’area è Tavola. Storia di anni recenti, però. La più grande lottizzazione industriale degli anni Ottanta. Capannoni identici edificati in quella pianura che d’improvviso si è innervata di braccia orientali, macchinari, odori esotici e ha dimenticato la sua natura contadina. Un tradimento, forse. Un territorio dove sono fiorite insegne colorate, caratteri sconosciuti e indecifrabili per l’occhio pratese e che si è popolato di confezioni Giada, Luana, Lisa: nomi femminili che evocano dolcezza e nascondono spesso dolore.
Tavola, attraverso le mie parole, è un accenno appena, un lampo di memoria, un ricordo inventato e ricostruito, parole scambiate in incontri casuali, ricordi familiari e, forse, una suggestione adolescenziale.
In garage ho sempre la mia vecchia bicicletta. Una gonfiata alle gomme e sono di nuovo pronto a pedalare: viale della Repubblica, la Questura e poi via Fonda di Mezzana, via Aldo Moro, a sinistra in via Toscana: eccomi arrivato.
Se vi è venuta voglia di partire, allora sì che mi avrete reso felice. Perché la scrittura è gioco, mistificazione, inganno; non dimenticatelo. E con le parole si può inventare ma anche accarezzare, blandire, suggestionare.
E allora, datemi retta, fatevi un giro: camminate lungo quelle strade, siate curiosi, appoggiatevi alla rete del campo di calcio e sognate, abbandonatevi al sole e non abbiate paura di scoprire un mondo sconosciuto. Chissà che lungo il cammino non vi capiti di alzare lo sguardo e incontrare quell’adolescente pensieroso e inquieto che pedala veloce fino al parco delle Cascine di Tavola, pronto a gettarsi sull’erba, alzare gli occhi gonfi al cielo, aprire le braccia e finalmente dimenticarsi di sé.