Daniele Silvestri non è solo un artista italiano. Daniele Silvestri è la storia di una intera generazione, la mia. E’ il manifesto degli anni 90, gli anni la cui la generazione invecchia con piacere ma vuole essere sempre giovane.
Io voglio bene a Silvestri. Gli voglio bene con lo stesso spirito a cui voglio bene ad Andy Warhol: a 17 anni lo reputi il più grande artista di sempre, a 33 pensi che ci abbia un po’ rotto, a quasi 40 pensi che aveva un senso, da ridimensionare, ma pur sempre un senso.
Come la sinistra italiana. Perché la storia di questo ragazzo romano è la storia della sinistra italiana.
Daniele irrompe improvvisamente nelle nostre vite limacciose da adolescenti sul finire dei 90’s: sono gli anni in cui il dilemma unico è votare Rifondazione oppure no. La direzione è chiara, per il romano: “Cohiba”. E’ palese che se ti presenti con un pezzo simile non puoi che non candidarti ad essere il “Mister Primo Maggio dei Primi Maggi”, perché poi la bandiera di Cuba ce l’avevamo un po’ tutti, assieme alla kefiah. C’erano delle linee semplici, dirette, corrisposte. Il look era poi perfetto: codino alto, pizzetto e dentatura scomposta quanto la Fiorentina durante l’incontro con l’Ajax del 2008. Nel senso che i denti andavano un po’ dove volevano, come Almiron e Jorgensen in quella fredda sera del febbraio olandese.
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Silvestri era sostanzialmente il cantautore perfetto, se calcoliamo che De Gregori era già diventato la parafrasi di Dylan pubblicando Hurricane 2.0, ovvero “Il bandito e il campione”. Brutto, ma figo. Come le feste Erasmus, come i bottiglioni di tinto sulle Ramblas a Barcellona. Dupalle, però a 20 anni sei figo a fare sta roba.
Berlusconi vince. E non una volta, vince e rivince. Arriviamo al 2002, esiste in Parlamento anche la lista “Biancofiore”, e Silvestri si presenta a Sanremo con “Salirò”. Un colpo al cuore, per noi. Noi che avevamo già ascoltato il doppio disco da artista bravo. Silvestri adesso ci diceva che ci potevamo divertire vestendosi e ballando un pezzo che avrebbe ballato Tony Manero.
Noi, giovani che compravamo le birre alla Casa del Popolo potevamo condividere la stessa cassetta in macchina con quelli della piazza davanti che andavano al Lidò? No, qualcosa non ci tornava.
Noi con l’orecchino a sinistra, perché metterlo a destra era una roba che insomma, però non si dice che sennò parte la cosiddetta bambola.
Noi ancora con il codino, qualcuno.
Noi che qualcuno andava coi girotondini, ma insomma, il partito era il partito. E poi quale, che c’era gente del PDS, gente di Rifondazione e gente del PdCI.
Ma non è finita, caro il mio Silvestri. Se fossimo a processarti davanti al tribunale della musica italiana, e ci fosse un P.M. come la Bocassini, sarebbe tosta. Perché mentre discutevamo sui tuoi pezzi, sul tuo stile, sul tuo Sanremo, gli anni passavano. E poi ci troviamo la tua schizofrenia musicale sul tavolo, con “La paranza”, hit ancora attuale nei villaggi vacanza, accostata a “Gino e l’Alfetta”.
Molti dicono che Matteo Renzi ha distrutto la sinistra di un tempo. Io dico che lo ha fatto prima Daniele Silvestri. Entrambi son legati ad cordone importante: il cantautore si è rifatto la dentatura, in un sorta di bowiesmo eccelso, il secondo si è tolto i nei in copertina del suo primo libro.
Stasera Silvestri sarà in concerto a Firenze, chiaramente sponsorizzato dall’associazione italiana odontotecnici. Io non ci andrò, ma amo chi sarà lì. Perché oltre essere un bravissimo musicista, Silvestri rappresenta un pezzo della mia generazione. Quella che sa a memoria Cohiba, e quando la canticchia sotto la doccia sorride e ride anche perché, insomma, sarebbe carino spiegare “il profumo inebriante che dall’Africa alle Ande, ti racconta di tabacco e caffè” ad un ragazzo di Cuba ora.
L’ha fatto Daniele, retorico come lo siamo stati tutti, capaci come invece pochi, onesti e coraggiosi come pochissimi invece, nel suonare “Salirò” a Sanremo ed a varcare la porta benedetta dell’odontotecnico.
Buon concerto. Grande Daniele.