Per cominciare a spiegare cosa è stato il Primavera Sound 2016 potrei descrivere un momento esatto, ovvero quando ci siamo resi conto, io e il gruppo di persone che erano con me a Barcellona, che era tutto finito.
Deve essere stato nella serata (ormai mattinata) di sabato scorso quando, mentre ci avviavamo verso il nostro appartamento, ci siamo guardati con l’aria di chi sa che tutto questo aveva ormai le ore contate. E ci è un po’ caduta la faccia sotto ai piedi. Sì, senz’altro non solo per questo motivo. Attribuiamolo anche alla stanchezza titanica accumulata nei giorni precedenti, al carico emozionale senza fine che un festival del genere ti lascia addosso, al tasso alcolico in lentissima via di smaltimento. Ma quando realizzi che davvero sta per arrivare l’ora di tornare a casa e di riconnettersi alle cose di tutti i giorni sviluppi una sorta di resistenza interna che urla a squarciagola: “No, non sono ancora pronto. Datemi ancora qualche giorno.”
Il Primavera Sound è un imbuto che ti inghiotte. Se vai a Barcellona con l’intento di andare al Festival e contemporaneamente fare il turista nella capitale catalana, scordati una delle due cose. O hai un fisico da mezzofondista keniano e una gestione da navy seal delle ore di sonno oppure non ce la farai mai. Le due cose non sono minimamente legate l’una all’altra ma, al tempo stesso, sono imprescindibili l’una dall’altra. Non esiste altro luogo al mondo in cui questo festival potrebbe tenersi. E il Parc del Forum è la sua naturale collocazione. Un luogo dove respiri la modernità più umana ma anche l’ampio retaggio tradizionale di una città solidamente piantata nella sua storia, in quel suo essere per forza diversa dalla maggior parte delle grandi città spagnole. Di quel suo voler essere diversa. In quei millequattrocento metri che separano i due palchi di questo enorme spazio c’è tutto quello che un amante della musica può volere. Tutto. E quindi, se sei un amante della musica, cosa ti importa di quello che succede al di fuori dei cancelli del Primavera Sound?
E’ un po’ come chiedersi mulderianamente se esiste la verità, là fuori. Le tue uniche preoccupazioni riguardano come raggiungere questo o quel palco in tempo per vedere questo o quell’artista. E non è sempre una cosa facile: ci sono file da affrontare, pause bagno da espletare il più velocemente possibile (in ogni caso, zone bagni disseminate in maniera strategica lungo tutta la zona e le attese non sono poi così insostenibili), amici che nel frattempo si perdono nel gorgo umano che si crea alle uscite delle aree palco. E così perdi interminabili minuti, acceleri il passo maledicendo il te stesso di qualche ora dopo per il dolore che avrai a piedi, caviglie e gambe. Combatti ogni istante della tua permanenza al Festival con quel maledettissimo nemico invisibile che si chiama “Timeclash”, ovvero, quel sadico meccanismo messo su dagli organizzatori per il quale “noi abbiamo tutto, ma tu NON PUOI VEDERE TUTTO”.
La scelta, ecco il dramma vero del Primavera Sound. Se su un palco, ad una certa ora, c’è qualcosa che stai guardando, stai pure certo che su qualche altro stage, qualcos’altro di altrettanto figo sta andando in scena e tu puoi solo affidarti ai racconti di chi ci è stato e ha visto. Ognuno di noi poi ha sempre a che fare con l’amico che radicalizza ancora di più il concetto alternativo in un festival in cui la musica alternativa (in tutte le sue declinazioni) è padrona indiscussa: “Radiohead? Ma scherzi? Ci sono gli Shellac all’Adidas Originals Stage. E che faccio, me li perdo?”. Comportamento che denota idee chiare e grande responsabilità di fronte alle proprie scelte musicali. Però, magari, ci rivediamo all’uscita dell’area stampa dopo eh.
Già, la musica. E tutto quello che ne consegue. Con i suoi momenti da ricordare. Dal tipo losco, ben oltre il suo limite di sopportazione alcolica e chimica, che durante il concerto degli Air abbraccia tutti in maniera anche discretamente invadente e ribattezzato, vista l’occasione, “Sexy Boy”. A Tommaso, 22enne fiesolano che si becca una gomitata al sopracciglio nell’infernale pit del concerto di Ty Segall all’Apollo e finisce in ospedale per poi ritornare il giorno dopo esibendo fiero il suo cerotto che profuma di medaglia al valore. Dai tipi palesemente italiani incontrati tra i Tame Impala e gli LCD Soundsystem che vorrebbero spingere questo festival nella direzione presa ormai da qualche anno da Coachella, dove “esserci è l’unica cosa che conta. Quindi, visto che ci siamo, devo essere visto”. Alla proposta di matrimonio sul palco dei Black Lips. Da Brian Wilson (ovvero, quando ti chiedi se il pavimento di quel palco è abbastanza robusto da sorreggere il peso della leggenda) e da Blondie Chaplin che praticamente è Lou Reed redivivo scuro di pelle e con una camicia a fiori. Poi scopriamo che ha suonato anche coi Rolling Stones e coi Beach Boys negli anni 70 e allora la voglia di scherzare passa immediatamente. Ai Radiohead, che solo con le prime 4 note di “Daydreaming” ammutoliscono 90.000 persone. La popolazione di Mordor (così i fanatici del festival chiamano lo spazio trai due main stage) che si piega all’evento più atteso. Dagli “yeah yeah yeah yeah” sparati senza ritegno verso il cielo durante la prova gigantesca degli LCD Soundsystem. Ai Tame Impala che all’improvviso si trovano nel bel mezzo di un black out generale che li ferma per 10 minuti per poi ricominciare esattamente dal punto in cui si erano interrotti. Dalla quarantenne non esattamente freschissima in topless tra il pubblico dei Battles (a proposito, John Stanier è dio). Ai tre tipi di interpretazione femminile che devono essere sottolineati: la dolcezza e quasi timidezza di Elena Tonra dei Daughter; la viscerale, infuocata e furiosa performance di Jehnny Beth delle Savages; la definitiva e emozionale eleganza di PJ Harvey, concerto eletto quasi all’unanimità come il più bello dell’intero festival. Dall’alba fatta ascoltando e ballando Maceo Plex e i suoi drop interminabili. Al Ray Ban Stage e a alle sue tattiche gradinate usate come momento di recupero tra un concerto e l’altro. Per arrivare alla festa di chiusura di Dj Coco e il suo omaggio a David Bowie con 10.000 persone che cantano “Space Oddity” e non abbastanza fazzoletti per asciugarsi gli occhi.
Certo che i Radiohead erano i più attesi e non hanno tradito le aspettative (la chiusura con “Creep” ha di fatto ricordato agli ultratrentenni di quanto fossero “fucking special” gli anni 90) ma è giusto ricordare che l’universo Primavera Sound vive e respira anche attraverso le performance nascoste, quelle che devi andare a scovare, quelle che magari ci passi davanti con poco interesse poi senti qualcosa che ti attrae e non puoi fare a meno di fermarti. E già che ci sei, “ma facciamoci anche la quinta birra, via”. Il punto di tutta la questione è che i concerti (come evento, luogo di ritrovo, spazio comune di condivisione) sono ancora importanti. E pazienza se non tutti vengono visti dalle prime file (si, mi rendo conto che vedere i Radiohead o i Sigur Ros dal maxischermo potrebbe non essere il massimo della vita) ma entrare in quello spazio evocativo personale che una band o un artista riesce a suggerirti e poterlo condividere con altre migliaia di persone è sempre una delle cose per le quali vale la pena vivere.
Lo hanno fortunatamente capito i circa 11.000 italiani che hanno raggiunto Barcellona per il festival e che gridano forte ai propri connazionali “perché loro si e noi no?”. Lo hanno capito da anni a quanto pare, visto e considerato che sono la seconda popolazione straniera più numerosa all’interno del Parc, dietro solo agli inglesi che da decenni hanno capito che la cultura dei festival è un elemento che è quasi completamente aderente al loro stile di vita. Probabilmente perché soddisfa a pieno certe nostre particolari necessità: relativamente vicino, ogni anno porta in un’unica line-up il meglio della scelta musicale mondiale, abbracciando praticamente ogni genere di gusto possibile, non è alienante come potrebbe essere lo Sziget e non rischi di buttare ogni tuo vestito alla fine di ogni concerto come a Glastonbury (se sei sfortunato e becchi l’anno di pioggia, cosa che accade un anno si ed uno no).
Ti distrugge il Primavera. Ve lo giuro. Mette a dura prova la vostra resistenza fisica. Soprattutto nei momenti di attesa tra un concerto e l’altro. Senti le caviglie che ti urlano, i piedi che cominciano e la testa è sempre rivolta al successivo act. Il problema, o presunto tale, è che non puoi tirarti indietro. Non è una questione di costrizione. Senti che la tua voglia di vedere e di vivere la cosa ancora più a fondo è più forte di qualsiasi acciacco. Almeno, così è stato per me. E certamente il festival, in tal senso, ti aiuta. Perché quando sei lì che stai per mollare, quando senti di non averne più per andare avanti, guardi il programma, leggi un nome che ti piace che si trova su un altro palco e senti già le gambe che si riattivano, la testa che si predispone ad un nuovo suono o un nuovo ascolto e un nuovo slot emozionale che si libera per far posto a ciò che sta per arrivare. E forse sta proprio qui la bellezza di tutto: nel non averne mai abbastanza. Ed è qualcosa che avevamo in comune un po’ tutti lì dentro.
Ah, Il prossimo anno ci torno. Nel caso non si fosse capito.